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ROMA: La pace di Augusto sulle rovine di guerra.

La storia, il significato e la scoperta dell’”Ara” innalzata dall’imperatore.

Ogni volta che mi trovavo a transitare di li, per la piazza che s’intitola al Divo Augusto e la sovrastante Passeggiata di Ripetta – e mi capita spesso – il pensiero corre a lei, all’Ara Pacis della mia infanzia. Tenuto per mano da Nonna Corinna, mia prima maestra di latino, compitavo allora le sillabe del mònito virgiliano – “Tu regere imperio populos, Romane, memento” – non staccando gli occhi dal basamento su cui candido giganteggiava l’altare eretto dal primo imperatore alla Pace nel mondo.

Un altare che di lì a poco sarebbe stato dimenticato con lo scoppio della guerra mondiale, la seconda, quella che avrebbe fatto sessanta milioni di morti, ma questa è storia che tutti conoscono. Non si sa bene invece che fine abbia fatto, al momento, l’Ara Pacis. lo, da anni, non la vedo più: è scomparsa dietro le palafitte e le erigende mura d’un misterioso ferrigno edificio che lentamente, molto lentamente, sta venendo su. Il primo pensiero è di natura infantile: che sia stata rubata come il Bambino dell’Ara Coeli? Capirai: ara quella ara questa, Cielo e Pace costantemente insidiati, in un mondo quale il nostro non ci si dovrà più stupire di nulla.

Mosso da giustificata ansia, son corso in Campidoglio a domandare che ne fosse dell’Ara. Serafico, un amico competente e affidabile mi ha tranquillizzato: “Non temere, è in buone mani. Quelle di Meier, sommo architetto americano. La riavrai, la tua Ara, senza un graffio, splendidamente restaurata, insomma, più bella di prima. Occorre un po’ di pazienza”. Pazienza? È un’arte tutta nostra: pensate alla Fabbrica di San Pietro, in funzione da secoli e secoli.

Augusto consacrò l’altare alla “sua” pace esattamente il 4 luglio del 13 d.C., quando aveva 76 anni, l’anno dopo sarebbe morto.

Sempre malaticcio, in gioventù l’erede di Cesare era stato anche crudele, in vecchiaia s’era fatto saggio: aveva dunque una gran fretta di concludere degnamente il suo percorso vitale. Ci riuscì edificando a pochi passi dalla sua tomba il monumento, appunto l’Ara Pacis, che sintetizzava, glorificandola, la sua colossale impresa di ideatore, costruttore, organizzatore, amministratore di uno sconfinato impero. “Quando dalla Spagna e dalla Gallia (…) tornai a Roma (…) il Senato decretò -è lui stesso a riferire nelle Res Gestae – che si dovesse consacrare l’Ara della Pace Augusta nel Campo Marzio, e dispose che magistrati, sacerdoti e vergini vestali vi celebrassero un annuale sacrificio”. Per duecento e più anni le disposizioni testamentarie dell’Imperatore-Dio ressero: resistè l’Impero e con l’Impero i riti dovuti all’Ara.

La ricostruzione dello stato romano da parte di Augusto fu accompagnata da un rinnovamento religioso: restaurò ottandadue templi nell’Urbe, riorganizzò tutti i collegi sacerdotali, riscoprì e riconsacrò la caverna della Lupa, il mitico Lupercale. Augusto era infatti convinto che la stabilità e la pace dell’impero romano non potevano recuperarsi in assenza di un ritorno alla religione degli avi già gravemente compromessa dalle guerre civili e sociali della morente repubblica. Le sue scelte finali, Ara e Tomba insediate l’una accanto all’altra in Campo Marzio, nell’area per tradizione dedicata alle manovre militari, la dicono lunga sui suoi propositi.

La lungimiranza politica del grande imperatore ebbe una gittata, diciamo un’ autonomia, di due secoli. È moltissimo, un record storico. Poi tutto andò a rotoli, in pezzi: Ara Pacis compresa. Il suo rinvenimento (e relativa ricostruzione) si configura in un’ appassionante vicenda culturale, soprattutto archeologica, protrattasi per quattro secoli, dal 1568 al 1937. Ci ha soccorso nella relativa ricerca la preziosa Grande guida dei Rioni di Roma edita alcuni anni addietro dalla Newton & Compton.

Tutto s’iniziò col ritrovamento casuale di alcune lastre marmoree nelle fondazioni del palazzo Peretti in Lucina. Si chiamava così nel XVI secolo, divenne poi palazzo Fio. Un edificio più volte ricostruito e distrutto, sito all’angolo di piazza in Lucilia col Corso, che negli ultimi anni suoi belli ospitò il Circolo degli Scacchi, ora è molto decaduto. A partire dalla prima scoperta fu come con le ciliegie: una lastra tira un frammento. Si prese a scavare lì intorno, i pezzi riaffioravano l’uno dietro l’altro. Incominciò una gara tra antiquari e collezionisti. Un reperto a Londra, uno a Berlino, un altro a Parigi, con convenienti lunghissime pause. Le scritte via via riportate alla luce aiutavano.

Sembrava trattarsi di un puzzle. Come rimettere insieme tutti quei relitti? Come restituire loro il senso originario? Per centinaia d’anni nessuno studioso fu in grado di fornire una risposta plausibile. Ci volle il genio (e la pazienza) di Ennio Quirino Visconti, nell’anno di grazia 1879, per arrivare all’illuminante conclusione: “Sono i resti dell’Ara Pacis Augustae”. Fortuna volle che, strada facendo, il mucchio di macerie gloriose si ritrovasse a Roma. Per una volta, i predatori si erano distratti e l’Ara era tornata a casa. Un miracolo? Noi ci crediamo. La sensazionale rivelazione incrementò, com’è ovvio, gli scavi nell’area. Ci si misero anche i Savoia, da poco insediatisi al Quirinale.

Quindi lo stesso Mussolini, che si fece in quattro perché sotto il suo (morente) consolato, l’Ara del Divo Augusto tornasse a glorificare la nuova Roma imperiale. I suoi restauratori, va detto, lavorarono presto e bene. Talché l’Ara Pacis, accuratamente inscatolata nella bella teca del Morpurgo, potè offrirsi alla vista studiosa di tutti, anche dei fanciulli della mia generazione. La teca da ultimo è andata a farsi benedire. L’Ara, ci assicurano, no. L’Ara vive! In Campidoglio, comunque, rammentino le parole di Pasquino: “Quod non fecerunt barbari…”.

Fonte: Il Tempo Roma – 10/07/05
Autore: Fulvio Stinchelli
Cronologia: Arch. Romana

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