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ROMA. La Roma Quadrata e il “muro di Romolo”.

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Una tradizione storiografica pone sul il nucleo primario attorno al quale si sarebbe poi sviluppata Roma. Compreso entro un originario (da +, “dietro le mura”, un confine sacrale e immaginario che delimitava la città dall’esterno), il colle era dunque considerato fin dagli albori dell’abitato come uno spazio consacrato e fortificato.

Così in epoca imperiale Tacito (Tᴀᴄ. . XII 24, 1) avrebbe ricostruito il tracciato della città primitiva sul Palatino:
Igitur a foro boario […] sulcus designandi oppidi coeptus ut magnam Herculis aram amplecteretur; inde certis spatiis interiecti lapides per ima montis Palatini ad aram Consi, mox curias ueteres, tum ad sacellum Larum.
«Dal mercato dei buoi si cominciò a segnare il solco dei limiti della città, fino a comprendere il grande altare di Ercole; in un tempo successivo, a partire da quel punto si posero a intervalli cippi di pietra lungo le pendici del Palatino fino all’altare di Conso, e più tardi fino alle Curie Vecchie, quindi fino al sacello dei Lari».

L’area così delimitata da quattro vertici sarebbe stata identificata come , realizzata da Romolo stesso con l’uso dell’aratro. La tradizione conserva, inoltre, anche il nome di alcune porte più antiche: ( ), verso il Foro, , verso la Velia, e .

A questa tradizione storiografica l’archeologia ha portato alcune singolari conferme: l’abitato antico, ricostruibile grazie ai solchi e ai fori dei pali di fondazione delle capanne sul tufo dell’altura, e i resti di fortificazione alle pendici nord-occidentali del colle. Quest’ultima scoperta ha avuto una vasta eco mondiale e le notizie relative al cosiddetto “muro di Romolo”. Sulle scoperte del Palatino esistono due interpretazioni opposte: una prima, che si potrebbe definire “minimalista”, che rilegge i resti come relativi alla fortificazione dell’antico abitato (il più importante nucleo di quella che sarebbe stata in seguito la città); e una seconda, più “estrema”, avanzata dagli stessi scavatori, i quali riconoscono nell’opera la prova esauriente di un atto di fondazione urbana: una conferma, praticamente, della storicità della leggenda.
Sul piano geografico, non potrebbe effettivamente trovarsi un luogo più adatto di questo colle per un insediamento stabile: l’altura era morfologicamente meno accidentata e impervia rispetto al , per esempio; ma, al tempo stesso, più arretrato rispetto al Tevere. Non stupisce dunque che nelle memorie leggendarie (e, a quanto è sembrato, archeologiche) del colle risalgano a ben più addietro della già mitica età romulea.

Nonostante numerose incertezze, aporie e lacune, il quadro demografico precedente l’età urbana nell’area di Palatino, Velia e Foro è confermato dall’evidenza archeologica.
Particolare importanza hanno avuto nella ricostruzione i rinvenimenti nell’area del Foro romano, pure limitati a una zona molto circoscritta. Qui, insieme a resti di abitato, è noto un sepolcreto in uso dal IX secolo fino alla prima metà circa dell’VIII, quando cessarono le sepolture di individui adulti: l’area sarebbe stata in seguito utilizzata come insediamento, mentre la “città dei morti” sarebbe stata trasferita sull’Esquilino. Mentre l’abitato del Palatino andava sviluppandosi, il settore nord-occidentale della città sarebbe stato occupato, stando alla tradizione, dai Sabini e dal loro re Tito Tazio. Proprio dall’accordo tra i due capi, Romolo e Tazio, si sarebbe poi sviluppata l’Urbe vera e propria. La tradizione restituisce, dunque, l’immagine di una comunità sorta con una notevole componente “geminata”, latina e sabina.
La questione della “sabinità” della Roma più antica è tuttavia molto forte nella tradizione arcaica: tra i dopo Romolo si sarebbero alternati esponenti delle due stirpi.
Quello che la leggenda tramanda in maniera più o meno favolistica può forse essere compreso in una prospettiva storica più complessa, che rende probabile una graduale immissione di elementi sabini sul territorio latino.

Autore: Angelo Mortati

Fonte: Roma Antica 12 gen 2024

 

 

 

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