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POMPEI (Na). Ecco come morirono gli abitanti. E il vulcano può risvegliarsi…

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Gli abitanti di Pompei non morirono soffocati dalle ceneri del Vesuvio, ma bruciati all’istante a una temperatura di circa 300 gradi. E’ quanto emerge da uno studio dei ricercatori dell’Osservatorio Vesuviano-INGV, Giuseppe Mastrolorenzo e Lucia Pappalardo, e dei biologi dell’Università di Napoli «Federico II», Pierpaolo Petrone e Fabio Guarino.
Oggi, la ricerca di questi studiosi sta acquistando una notevole rilevanza, e non solo dal punto di vista storico e speculativo, ma anche pratico.
L’ipotesi che il Vesuvio possa nuovamente eruttare nel giro di pochi anni prende sempre più consistenza e gli studi di Mastrolorenzo e colleghi potrebbero rivelarsi preziosissimi negli adeguamenti dei piani di evacuazione per fronteggiare la catastrofe.
Nello studio condotto da questi scienziati sono descritti minuziosamente, nei minimi particolari tutti gli aspetti anatomici a sostegno della tesi di una sorta quasi di “vaporizzazione” di molte delle vittime di Pompei. Secondo lo studio – infatti – lo straordinario calore ha portato a un’ebollizione del tessuto cerebrale, che schizzò letteralmente fuori in piccole esplosioni lasciando sulle ossa dei malcapitati i tipici segni bluastri delle bruciature. Tutto questo, secondo quanto pubblicato, sarebbe compatibile con gli straordinari ritrovamenti dei corpi nelle posture in cui sono stati rinvenuti.
L’umidità della vaporizzazione dei tessuti, impastata con la cenere vulcanica, avrebbe infatti creato quel guscio protettivo che ha preservato le ossa dalla decomposizione e, ancor più, ha cementato le “posizioni” in cui le vittime si trovavano al momento della morte.
Questo dato è fondamentale per distinguere coloro che sono stati uccisi all’istante dall’eruzione e colore che lo sono stati solo in un secondo momento, a seguito di un fenomeno legato al collasso della colonna di cenere e lapilli incandescenti eruttati dal Vesuvio chiamato flusso piroclastico.
Ma quando avverrà, se avverrà, una nuova eruzione del Vesuvio? Su questo gli allarmi recentemente lanciati da Guido Bertolaso, il capo della Protezione Civile, lasciano poco spazio a dubbi. L’attività è attesa in tempi geologicamente brevi e, anche se non è possibile stabilire un’esatta tempistica, Domenico Patané, dell’INGV di Catania, interpellato da IlSussiadiario.net, ha rassicurato che “Negli ultimi anni la vulcanologia ha fatto passi da gigante. Il denso monitoraggio oggi esistente su vulcani come l’Etna, il Vesuvio o i Campi Flegrei permette di rilevare anche i più deboli segnali che possano far pensare a un’eruzione. Dell’Etna, ad esempio, da qualche decennio siamo in grado di prevedere la possibile eruzione anche se non di stabilire il momento esatto in cui avverrà. Siamo però in grado di stabilire la variazione di stato di un vulcano e quindi capire se è prossima un’eruzione”.
Ma secondo gli esperti, appunto, questa serebbe solo questione di tempo. E più ne passa, più la “carica” del vulcano rischia di essere distruttiva.
E se Mastrolorenzo, Pappalardo, Petrone e Guarino hanno condotto una ricerca interdisciplinare, analizzando oltre a quanto descritto anche i depositi vulcanici, la struttura della cenere e il Dna delle vittime, associate a simulazioni numeriche al computer dell’eruzione – rivelando per la prima volta le conseguenze della nube vulcanica del 79 d.C. sugli abitanti di Pompei e degli altri siti dell’area vesuviana – la situazione attuale del Vesuvio è molto simile a quella che ha preceduto l’evento catastrofico che distrusse diverse città campane ai tempi dell’Impero romano. Le eruzioni del vulcano esplodono infatti con la massima potenza nei periodi successivi alla fase di quiescenza, come quella in cui si trova attualmente dall’ultima eruzione del 1944. I documenti pubblicati sul sito Internet della Protezione civile, riferendosi al Vesuvio, specificano che «qualora l’attività dovesse riprendere entro qualche decennio, la prossima eruzione sarebbe di tipo sub-pliniano».
Cioè, fortunatamente, non del tipo in assoluto più disastroso.
Gli effetti tragici di quanto accaduto nel 79 d.C., sulla cui dinamica ora è possibile avere una serie di informazioni prima sconosciute. Merito della ricerca dell’Università di Napoli e dell’Osservatorio Vesuviano, dal titolo «Lethal Thermal Impact at Periphery of Pyroclastic Surges: Evidences at Pompeii».
Secondo i quattro autori della ricerca, contrariamente a quanto fino a oggi ritenuto dai ricercatori, le vittime non subirono una lunga agonia per soffocamento, ma persero la vita all’istante per l’esposizione ad alte temperature, tra i 300 e i 600 C°.
I nuovi risultati sugli eventi termici e meccanici dell’evento del 79 d.C. rivelano come il rischio connesso a una possibile futura eruzione del Vesuvio potrebbe essere di gran lunga superiore a quanto fino a oggi ritenuto dai ricercatori e dalla Protezione civile. Il cui rapporto in ogni caso non si può certo dire proprio rassicurante. Ma che si basa sul presupposto di una certa gradualità degli effetti dell’eruzione sulle aree circostanti al Vesuvio, smentita invece dalla nuova ricerca. Per i quattro ricercatori, e soprattutto per Mastrolorenzo, sarebbe quindi urgente una drastica modifica dell’attuale Piano di Emergenza. Gli esperti dell’Osservatorio Vesuviano hanno studiato i livelli di cenere in diversi punti dell’area vesuviana. E dai profili tracciati hanno dedotto alcuni parametri: l’altezza e la velocità della nube provocata dal collasso della colonna piroclastica, che in questa eruzione raggiunse i 30 chilometri d’altezza.
Calcolando velocità e altezza, i ricercatori hanno potuto definire lo spessore e la densità della nube, e il tempo impiegato a passare su Pompei: poco più di un minuto. Trattandosi però di una nube poco densa, gli effetti meccanici dovevano essere stati piuttosto scarsi. A questo punto gli esperti hanno incominciato a studiare i calchi delle vittime, che presentavano il cosiddetto «cadaveric spasm», una postura cioè assunta quando la morte è istantanea. Osservando quindi i resti ossei, anche grazie all’analisi del Dna, è stata rilevata la prova di modifiche causate dall’alta temperatura. Sono stati condotti esperimenti in laboratorio su frammenti di ossa, esponendoli a temperature crescenti e osservando le modifiche che si producevano.
Questi frammenti sono quindi stati confrontati con i resti delle vittime di Pompei, giungendo al risultato che quei corpi erano stati esposti a una temperatura di circa 300°, che a Ercolano è arrivata a 600°. Tra le ragioni per cui è da escludersi la morte per soffocamento, anche il fatto che il tempo del passaggio della nube è stato tra 1 e 2 minuti, durante i quali una persona può restare in apnea senza morire.
Quelle che a lungo sono state ritenute posizioni che riflettevano una lunga agonia, sono dunque la prova di una morte istantanea: l’elevatissima temperatura.

Che cos’è il flusso piroclastico:
I flussi piroclastici sono miscele di particelle solide e gas che si formano nel corso di eruzioni esplosive e che scivolano veloci dal vulcano rasentando il terreno. Il volume totale delle particelle solide è molto variabile, ma sempre superiore rispetto a quello dei gas. In un flusso piroclastico possono essere trasportati insieme solidi con dimensioni molto diverse, da ceneri fini a grossi blocchi.
I piroclasti più piccoli (ceneri e lapilli) e il gas sono considerati la matrice che funge da sostegno e mezzo di trasporto per i piroclasti più grossolani. La capacità di un flusso di mantenere in sospensione piroclasti grossolani dipende dalla densità della matrice e quindi dalla quantità di cenere.
Questa varia continuamente durante lo scorrimento del flusso. Molta viene prodotta dalla collisione e frantumazione delle pomici, mentre la frazione più leggera è trascinata nell’aria dal movimento dei gas.
Lo scorrimento della miscela eruttiva può avvenire con flusso laminare, quando le particelle solide si muovono secondo linee rette oppure con flusso turbolento, quando le particelle seguono vortici circolari.
I due regimi di flusso possono instaurarsi in zone diverse di un solo flusso, quello turbolento nelle aree esterne dove la corrente è meno concentrata e quello laminare nella parte di flusso più densa.

Fonte: Il Sussidiario.net, 16 giugno 2010.

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