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MUSEI. Il futuro dei musei fra pubblico e privato.

A un passo dagli albori del 2021, che si prospetta nell’immaginario di tutti, più per esigenza intima che per chiare evidenze, come l’anno del rilancio del nostro sistema Paese, ci sono alcune riflessioni che riguardano il mondo museale italiano che meritano forse un po’ di spazio all’interno del pubblico dibattito.
Particolarmente interessante, al riguardo, è la tematica dei cosiddetti servizi aggiuntivi e servizi ausiliari, che potrebbe riservare non poche sorprese nel prossimo breve periodo.
Come noto, a partire dalla celebre legge Ronchey, è possibile, nel nostro Paese, affidare in concessione a soggetti non pubblici la gestione di alcuni servizi aggiuntivi (quali audioguide, visite guidate, laboratori didattici, bookshop, ecc.). L’introduzione prevista da tale legge ha, nei fatti, contribuito a migliorare, e non di poco, il livello qualitativo dei servizi che i musei offrono ai propri visitatori.
Molto lavoro resta ancora da fare, è vero, ma è innegabile che, rispetto a vent’anni fa, il nostro sistema museale ha avviato un lavoro di adeguamento a standard internazionali, che, pur se spesso non ancora raggiunti, sono comunque meno lontani. A una prima ondata di assegnazioni, che ha visto il mercato strutturarsi tendenzialmente come un quasi-oligopolio, con alcune società leader a gestire i principali luoghi della cultura, ha fatto seguito un periodo di stallo, dal quale soltanto recentemente siamo usciti con quella che pareva essere una nuova stagione per i musei. Sono state indette numerose gare, molte delle quali attraverso la Consip S.p.A., che inserivano all’interno dei capitolati tecnici (vale a dire nei documenti in cui vengono esplicitate le richieste tecniche da parte dell’Amministrazione), una serie di richieste interessanti, segno di una rinnovata attenzione al “visitatore”, e segno di una seppur timida apertura alle tecnologie.
Questa stagione promessa è tuttavia durata poco: a suon di ricorsi e sentenze del Consiglio di Stato, si è presto giunti a un livello di incertezza, a cui si sono aggiunte le problematiche COVID-correlate con gli effetti che è possibile immaginare.
LE IPOTESI DI SCELTA DA PARTE DEL MINISTERO SUI SERVIZI AGGIUNTIVI
Oggi, riflettendo sulla condizione dei musei in Italia, sembra pacifico che il Ministero sia alla vigilia di una scelta, molto importante, in termini di gestione dei servizi aggiuntivi.
Le possibilità, più o meno concrete, che il Ministero può ponderare sono sostanzialmente quattro:
Mantenere la linea politica inalterata, con adeguamento delle gare Consip alle recenti sentenze.
Adottare una linea politica, per così dire, statalista, in cui la gestione dei servizi aggiuntivi è demandata al Ministero o comunque a enti e società controllate.
Incrementare il rapporto tra il pubblico e il privato nella definizione o nell’adozione di modelli di concessione – appalto, che prevedano una maggiore partecipazione da parte del privato e quindi avviare un percorso che, naturalmente, non può che rendere ancora più importante la concentrazione del mercato.
Adottare una strategia di diversificazione del mercato, andando ad agire non solo sulle grandi sedi, ma anche nelle sedi minori, statali e non statali, favorendo la partecipazione di un più elevato numero di imprese, a carattere locale.
La prima strada, vale a dire mantenere inalterati gli equilibri, non introduce alcuna innovazione rispetto a quanto a oggi visibile, e pertanto non merita un commento specifico.
Rimangono quindi le altre condizioni.
È chiaro che la logica statalista (soluzione 2) potrebbe godere di una certa “simpatia” da parte di alcuni operatori culturali, e al contempo mostrare una certa affinità con le linee politiche adottate dal nostro Ministero sotto la guida di Franceschini. Sarebbe però un gran colpo al nostro sistema museale: è chiaro a tutti che il Ministero per i Beni e per le Attività Culturali (con o senza Turismo, a seconda dell’anno), abbia sempre rivestito una posizione di tutela statale. Orbene, se è stato questo stesso Ministero a comprendere, anticipando di molto i tempi, che per valorizzare il nostro patrimonio culturale era necessario attingere dalle caratteristiche specifiche degli operatori di mercato, tornare indietro su questo versante potrebbe minare in modo significativo i progressi sinora raggiunti. Tale condizione, quindi, andrebbe esclusa, al netto di importanti rivoluzioni della nostra Amministrazione, che non sono certo impossibili, ma sono di certo improbabili.
Volendo quindi mantenere il rapporto con il “privato”, e volendo “approfittare” di questo stallo, prima legislativo e poi emergenziale, per poter migliorare l’assetto generale della gestione dei servizi all’interno dei musei, rimangono dunque due sole possibilità: spingere verso una maggiore partecipazione del privato all’interno dei musei o, al contrario, spingere a una partecipazione dei privati più numerosa.
Nella prima linea, infatti (soluzione 3), una scelta potrebbe essere quella di costruire, insieme al privato, un percorso di valorizzazione condiviso, in cui il privato, in qualità di ente investitore e non mero erogatore, partecipa attivamente alla creazione dei servizi, investendo anche capitali propri per sviluppare nuovi servizi e nuove soluzioni a fronte, ad esempio, di un compenso in quota parte determinato dai risultati raggiunti. Questa linea potrebbe, ad esempio, permettere di definire, da parte dell’Amministrazione, gli obiettivi strategici che intende perseguire, e definire con il privato (che agirebbe in qualità di socio – seppur non in termini legali) le modalità attraverso le quali raggiungere tali obiettivi e dei premi di produzione, basati anche sugli investimenti che il privato ha sostenuto, in caso di raggiungimento di tali obiettivi.
Sarebbe sicuramente un passo importante, nella definizione dei rapporti tra pubblico e privato (che, ricordiamolo, perseguono già lo stesso obiettivo), ma soprattutto sarebbe un modo per imprimere una forte spinta innovativa all’interno del nostro sistema museale.
È chiaro che, tuttavia, una tale linea potrebbe essere perseguita soltanto da soggetti già presenti sul mercato, e che già conoscono le dinamiche museali, e già hanno contezza di tutte le dimensioni in cui può avere o non avere senso investire. Sarebbe infatti un mercato per pochi big player che possono permettersi di rischiare all’interno di un settore, che in ogni caso, oltre a essere molto aleatorio, è anche stato a lungo poco trasparente.
Condizione diametralmente opposta è invece quella che si verrebbe a creare nel caso in cui il Ministero decidesse di adottare una linea di “estensione demografica” del mercato. In questo caso, anche a fronte delle disponibilità fornite da alcuni strumenti finanziari comunitari, il Ministero dovrebbe infatti finanziare, sulla base di importi predeterminati, tutti i musei pubblici, al fine di dotare tali strutture delle risorse necessarie a poter indire gare, certo meno remunerative rispetto ai musei della TOP 20, per la definizione di servizi.
Si tratterebbe di una politica che si pone il duplice obiettivo di far crescere il sistema museale statale, e far crescere il numero di operatori presenti nel mercato. Si tratterebbe sicuramente di una spesa significativa, ma che potrebbe avere dei ritorni di medio periodo che non vanno ignorati, come l’incremento del valore aggiunto all’interno del settore museale e, di fatto, la possibilità di ingresso di nuovi player che potrebbe portare, come succede in tutti i settori, alla crescita e all’affermazione di nuovi soggetti, in grado di rispondere alle esigenze delle Amministrazioni anche meglio di quanto oggi facciano i privati.
Sono scelte, tutte, che ovviamente meritano una riflessione più approfondita (anche in termini di coperture finanziarie, coerenza con le disposizioni in tema di diritto amministrativo), ma, al netto dei tecnicismi, sono scelte che riflettono anche una visione del nostro sistema museale,
Ammesso che, in fondo, il Ministero ne abbia una.

Autore: Stefano Monti

Fonte: www.artribune.com, 27 dic 2020

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