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DESENZANO DEL GARDA (Bs). Il Museo Archeologico G. Rambotti.

Il museo di Desenzano per la sua collocazione geografica in un territorio molto ricco di testimonianze dell’età del Bronzo provenienti dagli abitati palafitticoli, ha la funzione precipua di offrire un ampio panorama delle culture preistoriche succedutesi nella regione benacense. L’eccezionalità della zona, forse la più importante d’Europa per quanto concerne le aree umide di interesse archeologico, deriva principalmente dalle caratteristiche dei depositi antropici sommersi a qualche distanza dalla linea di riva del lago o stratificati nelle torbiere dei bacini inframorenici, che grazie alle loro condizioni anaerobiche, consentono di preservare i manufatti in materiale organico e l’aratro del Lavagnone ne è l’esempio più clamoroso.

BREVE STORIA DEL MUSEO

Il Civico Museo Archeologico di Desenzano del Garda, intitolato a Giovanni Rambotti, è stato inaugurato nel 1990. L’idea di istituire un museo archeologico dedicato alla preistoria del lago di Garda era già maturata agli inizi degli anni ’80 in seguito agli importanti risultati conseguiti con gli scavi condotti da Renato Perini al Lavagnone e alla clamorosa scoperta di un aratro pressoché completo, risalente agli inizi dell’antica età del Bronzo; al recupero di materiali raccolti da appassionati locali nelle numerose palafitte sommerse lungo le rive meridionali del lago: Gabbiano di Manerba, Corno di Sotto, Porto Galeazzi, Lugana Vecchia e Maraschina; all’acquisizione da parte del comune di Desenzano della collezione dell’avv. Mosconi, formata con i materiali scoperti al Lavagnone all’epoca dell’estrazione della torba; alle sistematiche raccolte di superficie effettuate sempre al Lavagnone in occasione delle periodiche arature principalmente da parte di Ettore Merici; all’attività del Gruppo Archeologico di Desenzano (G.A.D.) e del gruppo “La Palafitta”, che con assidue prospezioni del territorio di Desenzano e di Lonato, andava rivelando per la prima volta l’esistenza di numerosi siti del Mesolitico sparsi nell’area dell’anfiteatro morenico benacense.

GIOVANNI RAMBOTTI (1817-1896)
Giovanni Rambotti nacque a Desenzano il 21 novembre 1817.
Dopo aver compiuto gli studi primari e secondari nella sua città natale, studiò legge all’Università di Pavia, dove conseguì la laurea nel 1840.
Esercitò la professione di notaio in Desenzano. Membro della Deputazione Comunale dal 1848 al 1859, alla nascita del Regno d’Italia nel 1860 ricoprì l’incarico di primo sindaco di Desenzano, che tenne fino al 1862.
Dal 1863 al 1872 fu direttore della Scuola Tecnica pareggiata.
Giovanni Rambotti fu certamente uomo di grande rigore e dirittura morale, di fede cattolica e ricco di sensibilità anche per i problemi sociali. A lui si deve la fondazione della Società Operaia di Desenzano, di cui fu presidente.
Nel 1872 iniziò a interessarsi dei materiali archeologici preistorici che venivano alla luce durante i lavori di estrazione della torba nel bacino inframorenico di Polada presso Lonato.
In pochi anni mise insieme la più importante collezione di materiali palafitticoli dell’età del Bronzo e nel 1875 sarà il principale prestatore all’esposizione di Archeologia Preistorica organizzata a Brescia dall’Ateneo di Scienze e Lettere.
Grazie a queste scoperte il Rambotti entrò in relazione con i maggiori studiosi dell’epoca, primo fra tutti Luigi Pigorini, con il quale rimase in costante contatto epistolare.
Dal 1878 fino alla morte, fu Preside del Ginnasio-Liceo Bagatta di Desenzano. Il Rambotti era socio dell’Ateneo di Scienze e Lettere di Brescia e per i meriti acquisiti in diversi campi ottenne la nomina a “Cavaliere” e “Ufficiale” del Regno.
Grazie alle importanti scoperte archeologiche effettuate a Polada nel 1882 – e certamente per interessamento di Luigi Pigorini – fu nominato “Regio Ispettore degli Scavi e Monumenti” per la zona di Desenzano. In questa sua veste inviò una breve relazione sulle circostanze della scoperta di una lapide romana nel corso di lavori edilizi al castello di Desenzano, riferendo anche sulla precedente scoperta di una tomba di età romana imperiale ai piedi del muro occidentale del castello.
Nella sua qualità di preside del Liceo Bagatta, il Rambotti conobbe personalmente Giosuè Carducci, venuto a Desenzano per quattro anni consecutivi (1882-1885) come Regio Commissario per gli esami di maturità. Carducci ne ha lasciato un breve ritratto in una lettera indirizzata da Desenzano a Severino Ferrari e datata 8 luglio 1882: “i professori sono tutti preti, e il preside è un notaio, un notaio lungo, di pelo bianco, vestito di nero”.
Rambotti certamente parlò al Carducci delle sue scoperte e della preistoria del lago di Garda. Nel diario del poeta vi è la seguente annotazione: “Lunedì 10 luglio 1882……La sera dal preside Rambotti a vedere antichità.”. E nell’ode barbara “Da Desenzano”, composta l’anno successivo, mentre era nuovamente Commissario Regio al Liceo Bagatta, e indirizzata a Gino Rocchi, il Carducci invita l’amico a lasciare Bologna e a venire a Desenzano, “… dove è dolce udire, tra un bicchiere di vino e l’altro, le lontane storie degli antenati, mentre il sole tramonta e sorgono le stelle e il vento soffia tra le onde e tra gli alberi: i nostri antenati siano essi gli uomini ferini delle lacustri palafitte o i Veneti o gli Etruschi, un tempo godettero delle bellezze del lago, così come le godiamo noi oggi”.
G. Rambotti coltivava interessi per la storia, le scienze naturali e l’archeologia e amava collezionare antichità. Di questi suoi interessi sono testimonianza la collezione archeologica, formata nel corso degli anni, e un manoscritto inedito intitolato “Cenni sul lago di Garda e i suoi contorni”, in cui, oltre a fornire innumerevoli notizie di carattere storico ed economico, si dedica una parte importante alle specie ittiche del lago, sistematicamente classificate, e alle tecniche della pesca.
Il Rambotti aveva raccolto qualche oggetto di bronzo proveniente dalla palafitta di Peschiera o scoperto occasionalmente in diverse località (una fibula Certosa presso Rivoltella, un’ascia ad alette mediane da Carpenedolo, una falce di bronzo dal Trentino), i materiali di una tomba forse di età gallica scoperta in una cava di ghiaia in località Taverna a Desenzano e quelli di tre tombe romane rinvenute a Pozzolengo- contrada Celadina, presso la Rocca di Manerba e in contrada Bionde a Sirmione. Della sua collezione facevano parte due statuette in bronzo di Minerva, una scoperta presso l’osteria di Lugana Vecchia, l’altra rinvenuta in località Menassasso di Desenzano; frammenti di mosaici e di intonaci dipinti dalla villa romana della punta di Sirmione; il frammento di un’iscrizione romana in bronzo ritrovata a Desenzano tra la propria casa e il lago. Il Rambotti recuperò, e conservava nella propria collezione, i frammenti di un mosaico romano venuto alla luce a Desenzano in via Borgo Regio, dove in seguito, a partire dal 1921, gli scavi porteranno alla luce un’importante villa della metà del IV secolo. Nel giardino della sua casa in Desenzano il Rambotti conservava anche un monumento romano con bassorilievo allusivo all’agricoltura, scoperto tra Monzambano e Castellaro Lagusello. Nella collezione Rambotti figuravano monete di bronzo e d’argento dell’Egitto di età ellenistica, una lucerna fittile da Pompei, e diversi materiali scoperti tra le rovine dell’antica Scolacium, presso la foce del Corace poco a sud di Catanzaro Marina, e alla foce del Simeri a nord di Marina di Catanzaro.
Nell’estate del 1868 i lavori di estrazione della torba nella valletta del Machetto, a sud di Desenzano, intaccarono i resti di una palafitta e portarono alla luce selci scheggiate, ossi animali e i resti di uno scheletro umano. Informato immediatamente dal suo amico Alberto Bazoli, il Rambotti si recò subito sul luogo, recuperando cinque strumenti di selce scheggiata, resti di legni e di ossi animali e soprattutto un cranio quasi completo e consistenti parti di uno scheletro umano. Le selci del Machetto sono attualmente conservate al museo Pigorini di Roma, dove pervennero insieme a tutta la collezione Rambotti.
Quando nel marzo 1872 iniziarono i lavori di estrazione della torba nel piccolo bacino inframorenico della Polada, tra Lonato e Desenzano, vennero alla luce i resti di una palafitta. I fratelli Bazoli, amici del Rambotti gli consentirono di eseguire scavi per proprio conto. Tuttavia, dopo la metà del 1873, ai Bazoli subentrò nello sfruttamento della torbiera la Società Anonima dei Combustibili di Milano, che impedì al Rambotti la prosecuzione delle sue ricerche. Il Rambotti formò così una grande collezione di oggetti preistorici provenienti dalla palafitta di Polada, che fu esposta per la prima volta al pubblico in occasione dell’Esposizione di Archeologia preistorica e Belle Arti della Provincia di Brescia, inaugurata il 19 agosto 1875.
L’esposizione di Brescia procurò al Rambotti una larghissima fama nel campo degli studi di archeologia preistorica ed egli poté intrattenere cordiali rapporti con i maggiori studiosi italiani, in particolare con Luigi Pigorini, al quale, in occasione di una sua visita a Desenzano nel 1878, regalò per il museo Preistorico di Roma alcuni degli oggetti di bronzo della palafitta di Peschiera da lui posseduti.
Nel corso del 1876 il Rambotti recuperò dalla torbiera Fornaci, immediatamente a sud di quella di Polada, il cranio di un uro (Bos primigenius), di eccezionale interesse poiché recava una cuspide di freccia in selce infissa nell’osso frontale vicino all’occhio destro. Nel 1878 insieme a Luigi Pigorini e Stefano de Stefani il Rambotti effettuò un sopralluogo alla palafitta della Cattaragna, tra Castel Venzago e Solferino.
Nel 1880 fu invitato insieme a G. Chierici, G. Bandieri e L. Ruzzenenti agli scavi delle terramare di Bellanda e di Villa Cappella nel Mantovano.
Nel 1886 accolse nella sua casa di Desenzano Robert Munro, di Edinburgo, segretario della Società degli Antiquari della Scozia, a cui illustrò i materiali di Polada, che erano raccolti in due stanze al piano terra della sua abitazione, e lo accompagnò in un sopralluogo al sito stesso di Polada, esponendogli le conclusioni a cui era pervenuto intorno all’estensione e alle caratteristiche della palafitta.
Il Rambotti fu certamente in contatto anche con Pompeo Castelfranco, illustre paletnologo di Milano, amico del Pigorini e collaboratore del “Bullettino di Paletnologia Italiana”. Tra le carte del Castelfranco già conservate alla biblioteca d’arte al Castello Sforzesco ed ora presso le civiche raccolte archeologiche di Milano vi sono due tavole con il disegno a grandezza naturale di alcune asce e di due cuspidi di lancia in bronzo della raccolta Rambotti.
Anche se era stata progettata una pubblicazione su Polada, il Rambotti non lasciò alcuno scritto edito sulle scoperte da lui effettuate.
G. Rambotti morì a Desenzano del Garda il 22 dicembre 1896, all’età di 79 anni.
Il Pigorini ne pubblicò il necrologio: “Di lui non abbiamo alcuna pubblicazione che agli studi nostri si riferisca, ma nessun paletnologo italiano, pochi fra gli stranieri, ignorano il suo nome, l’importanza scientifica della collezione che riuscì a comporre, la rara liberalità colla quale metteva a disposizione degli studiosi il pregevole materiale adunato in servigio della nostra scienza. La collezione delle antichità lacustri di Polada illustrata dal Munro…resterà monumento insigne di quanto il Rambotti ha saputo compiere a profitto della paletnologia italiana”.
(a cura di R. C. de Marinis)

L’EDIFICIO
Il Monastero di S. Maria del Carmine
Fino al trasferimento nell’attuale sede, le collezioni del Museo erano ospitatate nel Palazzo del Provveditore Veneto (1585).
Il Monastero di S. Maria del Carmine – attuale sede della Biblioteca comunale e del Museo Archeologico – fu fondato dai frati carmelitani nel 1472.
La chiesa attigua, successivamente sconsacrata ed ora adibita a cinema, era già intitolata a S. Maria de Senioribus. 
Il chiostro, a pianta quadrata con cinque arcate per lato e venti colonne, era stato completato già almeno nel 1547.
Sul chiostro si aprivano il refettorio e la cancelleria. Al primo piano, due lati del chiostro erano occupati dalle celle dei monaci, mentre gli altri due disposti verso la chiesa e il lago erano loggiati aperti sul chiostro stesso, con colonnette di cotto ed archetti.
Una finestra bifora – riportata alla luce dalla recente ristrutturazione – era l’unica apertura sul lago.
Prima la Repubblica Veneta nel 1768, e successivamente quella Bresciana nel 1797, emanarono provvedimenti legislativi volti alla soppressione degli enti religiosi.
Tra gli enti soppressi vi fu il convento dei carmelitani calzati di Desenzano che all’epoca era composto da soli dodici frati.
Il convento fu quindi posto all’asta e la chiesa di S. Maria de Senioribus divenne proprietà demaniale.  Nel 1813 fu venduta ed adibita a teatro.
L’intero edificio è stato ristrutturato a partire dall’anno 1984.

Sezione I. Il Lago di Garda nella preistoria.
All’inizio del percorso museale un grande quadro luminoso con una carta di distribuzione dei siti archeologici nel territorio compreso tra l’Oglio ad ovest, i colli Berici ed Euganei a est, la conca di Trento a nord e il corso del Po a sud illustra le diverse fasi del popolamento preistorico di età postglaciale. Il visitatore può azionare i pulsanti che gli permettono di avere una visione generale della distribuzione degli insediamenti per fasce cronologiche. Si può così osservare il progressivo aumento del numero degli abitati dal Mesolitico all’età del Bronzo.
L’intensificarsi della colonizzazione della pianura padana nel periodo tra il 1600 e il 1200 a.C. (Bronzo Medio e Recente) emerge con assoluta chiarezza. Si toccò allora una densità demografica che sarà nuovamente raggiunta soltanto in età romana imperiale.
Subito dopo un plastico della parte centro-meridionale del lago di Garda e dell’anfiteatro morenico benacense, in scala 1 : 25.000 e con curve di livello ogni 25 metri, evidenzia l’aspetto geomorfologico della regione benacense e le relazioni tra insediamenti preistorici e ambiente naturale. Il lago di Garda durante il Pleistocene (ultimi due milioni di anni) fu più volte
raggiunto dall’avanzata dei giganteschi ghiacciai alpini, le cui fronti depositarono ai suoi margini meridionali i cordoni morenici costituenti l’attuale zona collinare a sud del lago. Nel plastico i depositi morenici sono evidenziati con colore beige chiaro.
Un sito palafitticolo sommersoTra le varie cerchie moreniche e al loro interno si sono formati molti bacini, che hanno ospitato, dopo la fine della glaciazione, piccoli laghi trasformatisi nel corso degli ultimi cinquemila anni in zone torbose e paludose.
Il periodo della tarda preistoria in cui furono più numerosi gli insediamenti nella regione benacense é l’età del Bronzo. A quell’epoca il livello del lago di Garda era più basso di alcuni metri. Il plastico evidenzia in azzurro chiaro la fascia fino a 5 metri di profondità, lungo cui erano situati gli abitati palafitticoli, attualmente sommersi per la risalita del livello del lago verificatasi negli ultimi 3.000 anni. Abitati di tipo palafitticolo, oppure all’asciutto lungo le linee di riva, sorsero numerosi anche nei piccoli bacini inframorenici, mentre altri abitati erano posti su alture, come ad esempio la rocca di Lonato, Monte Covolo, la Rocca di Rivoli.
Sulla parete di fondo al termine della prima sezione un cassonetto luminoso mostra un momento di una ricerca archeologica subacquea in un sito palafitticolo sommerso del lago di Neuchátel.

Sezione II. Il mesolitico e il neolitico.
I più antichi gesti tecnici.
Per la preistoria più antica quando si viveva esclusivamente di caccia e raccolta (Paleolitico e Mesolitico), la documentazione archeologica è costituita soltanto da strumenti litici, fabbricati scheggiando e ritoccando determinate pietre. In realtà si utilizzava largamente anche il legno e a partire dal Paleolitico Superiore l’osso e il corno, ma la conservazione dei manufatti in materiale organico deperibile è estremamente rara, poiché richiede condizioni anaerobiche che in genere si presentano solo nelle torbiere.
Per fabbricare strumenti e utensili si sceglievano pietre che hanno la proprietà di sfaldarsi facilmente producendo spigoli taglienti, come ad es. la selce, il quarzo, il diaspro, l’ossidiana, il cristallo di rocca, e, in mancanza di questi, anche materiali meno adatti come ciottoli di lava, calcare o travertino. Il più importante di questi materiali è la selce, ampiamente diffusa in Europa e reperibile sotto forma di noduli o masselli in alcune formazioni geologiche e in depositi alluvionali o sotto forma di ciottoli nelle morene e nel greto dei fiumi. La selce è una roccia silicea di origine sedimentaria, prodotta dall’aggruppamento di resti silicizzati organogenici, come ad es. gli scheletri dei radiolari, ed è caratteristica delle formazioni calcaree giurassiche e cretaciche, mentre analoghe rocce silicee di formazioni geologiche differenti prendono il nome di “chert”.
I processi di fabbricazione degli strumenti di pietra scheggiata mostrano una chiara evoluzione tecnologica nel corso del tempo, ma anche una grande unità e continuità attraverso il concatenamento e la filiazione delle varie tecniche. Le innovazioni aggiunsero operazioni tecniche nuove senza che quelle antiche fossero abbandonate.
La nascita dell’utensile si verifica tra 2,5 e 2 milioni di anni fa nell’Africa orientale ad opera dell’Homo habilis. Un ciottolo intenzionalmente scheggiato in modo da ottenere un margine tagliente costituisce il primo strumento artificiale, fabbricato da un primate bipede che classifichiamo proprio per questo fatto nel genere Homo e che si colloca sulla diretta linea ancestrale della nostra specie. Le più antiche industrie litiche, l’Olduvaiano e l’Acheuleano, hanno avuto una durata immensa, all’incirca un milione di anni ciascuna. L’Acheuleano, il cui autore è l’Homo erectus, si è diffuso in Europa a partire da circa 600-500 mila anni fa. Il gesto tecnico di queste più antiche industrie è quello della percussione diretta: un ciottolo o un nucleo vengono colpiti con un percussore di roccia dura in modo da staccare alcune schegge e creare un bordo tagliente corto e irregolare.
L’utilizzazione dell’impronta lasciata dallo stacco delle schegge come nuovo piano di percussione aprì la via alla fabbricazione di forme più complesse, con una sgrossatura più o meno completa di un ciottolo o di un nucleo in modo da ottenere un bifacciale di forma ovale o a mandorla. Alla sgrossatura per percussione diretta si aggiunse in seguito il ritocco con percussore tenero di legno duro, di osso o di corno, che consentiva di regolarizzare e affilare i bordi taglienti dei bifacciali, o di preparare un nucleo per staccare schegge di forma predeterminata (tecnica levalloisiana).
Questi progressi furono realizzati probabilmente da forme avanzate di Homo erectus o da forme arcaiche di Homo sapiens.
Diversificazione e alleggerimento degli strumenti.
La classificazione degli strumenti è una miscela di denominazioni convenzionali, in parte funzionali in parte puramente morfologiche. In realtà non sappiamo con precisione l’uso effettivo a cui erano destinati gli strumenti di pietra scheggiata. Si è sempre supposto che venissero utilizzati per tagliare la carne, confezionare le pelli e lavorare il legno. Gli studi sul significato funzionale delle microtracce d’usura hanno confermato questi diversi usi, ma non sempre in conformità alle denominazioni adottate dagli archeologi per gli strumenti. Le azioni più frequentemente evidenziate sono quelle di decorticazione, piallatura, lisciatura e sagomatura del legno e di taglio, scarnificazione e raschiamento delle pelli.
Le classificazioni comunemente impiegate per gli strumenti del Paleolitico Medio e Superiore, per il Mesolitico e poi anche il Neolitico e in parte l’età del Rame e del Bronzo, comprendono alcune famiglie e gruppi tipologici denominati: bulini, grattatoi, lame a dorso, punte a dorso, troncature, dorsi e troncature, becchi o perforatori, armature geometriche, punte foliate, raschiatoi foliati, punte, raschiatoi, denticolati, pezzi scagliati.
Per alcuni gruppi si possono proporre, in base a criteri puramente formali, al ritrovamento di strumenti immanicati, alle tracce d’uso e ai confronti etnografici alcuna funzioni.
Le lame e le punte a dorso dovevano essere strumenti da taglio, paragonabili ai nostri coltelli.
La parte attiva era il bordo naturalmente tagliente, mentre il dorso ottenuto con il ritocco erto aveva lo scopo di facilitare uno stabile inserimento in un supporto funzionante da manico o di permettere l’appoggio del dito durante l’uso dello strumento.
I bulini, caratterizzati da un robusto e stretto taglio trasversale come quello di uno scalpello, avevano la funzione di incidere legno, osso e corno per fare scanalature in modo da ottenere dei manici o supporti per immanicare altri strumenti di selce. I bulini servivano certamente anche per eseguire incisioni a scopo decorativo.
I becchi o perforatori dovevano essere utilizzati per fare dei fori in materiali come il legno, l’osso e la pelle. Le lame denticolate o con incavi servivano probabilmente per decorticare e squadrare il legno, ad esempio per preparare la aste di giavellotti o frecce. Si possono quindi assimilare allo strumento, in uso soprattutto nelle aree montane, detto scortecciatoio o coltello a due manici (in inglese draw-knife o spoke- shave).
I grattatoi sono caratterizzati da una fronte in cui il ritocco forma con la faccia ventrale della scheggia o della lama un angolo di circa 60° e servivano per operazioni di raschiatura, lisciatura e piallatura nella concia delle pelli e nella lavorazione del legno e dell’osso.
I grattatoi frontali lunghi possono essere stati utilizzati per raschiare pelli, rimuovere la corteccia dagli alberi, incavare legni od ossa, cioè per operare con un movimento avanti-indietro. I grattatoi frontali corti o circolari erano probabilmente strumenti per lisciare e piallare di uso generale. I grattatoi carenati a muso, in genere più grandi e più pesanti, erano utilizzati probabilmente come pialla per sgrossare. In questi casi il movimento era in avanti.
Tra gli strumenti più facili da comprendere in relazione al loro uso ci sono le punte destinate a essere immanicate come cuspidi di freccia o come lame di pugnale.

Le industrie litiche.
La scoperta di siti mesolitici in Italia settentrionale è piuttosto recente: in particolare i lavori di sbancamento delle grandi conoidi detritiche della Val d’Adige hanno portato alla luce imponenti sequenze stratigrafiche alla fine degli anni Sessanta.
La più importante è sicuramente quella di Romagnano  Loc III (TN) che, in più di 8 metri di spessore, conserva tracce di occupazione, che vanno dal Mesolitico all’età del Ferro. Lo scavo, eseguito durante gli anni Sessanta, ha consentito di studiare l’evoluzione delle industrie dal Sauveterriano antico sino al Neolitico; si è così ricostruita una sequenza relativa di riferimento, a cui è stato possibile associare datazioni assolute ottenute attraverso il metodo del 14C. Altre scoperte si sono susseguite nella Val d’Adige, nei fondovalle alpini e in siti d’alta quota dell’Italia nord-orientale, grazie soprattutto a sistematiche ricerche di superficie; meno conosciuta risulta invece l’area occidentale, interessata solo di recente da ricerche mirate all’individuazione di siti mesolitici.

Le industrie.
Laddove livelli di occupazione mesolitici si trovano stratificati al di sopra di depositi del Paleolitico finale (es. riparo di Biarzo -UD-, Grotta  della Madonna di praia a Mare  -CS-, Grotta della Serratura -SA-) è possibile cogliere una derivazione dei complessi mesolitici da quelli epigravettiani più evoluti. Si nota un forte sviluppo del microlitismo, con strumenti geometrici  standardizzati di dimensioni ancora più piccole rispetto a quelli dell’Epigravettiano, punte a due dorsi convergenti, dorsi e troncature, ottenuti con la tecnica del microbulino e utilizzati come armature modulari per frecce ed arpioni. Anche in Italia è possibile distinguere complessi di tipo Sauvetarriano e Castelnoviano. Le principali sequenze stratigrafiche per lo studio dell’evoluzione delle industrie durante il Mesolitico sono quelle della Val d’Adige: Romagnano Predestel, Vatte di Zambana e Riparo Gaban (TN). Altre sequenze stratigrafiche rilevanti sono fornite dal Riparo Soman (VR), con livelli di occupazione che vanno dall’Epigravettiano finale al Neolitico, dalla grottina dei Covoloni del Broion, sui Berici (VI), e da alcune grotte del Carso triestino ( Grotta Azzurra, Grotta dell’Edera, Grotta della Tartaruga).
Industrie sauvetariane sono state individuate oltre che nel bacino dell’Adige, nelle Dolomiti bellunesi e nel Carso, anche nell’area nord-occidentale (Alpe Veglia -NO- e Liguria) e in alcuni siti delle Alpi Apuane e dell’Appennino Tosco-emiliano (isola Santa, Bagioletto -RE-). Sulla base della tipologia, tipometria e frequenza delle armature microlitiche è stato possibile suddividere il Sauvetariano in quattro fasi:
– S. ANTICO: (Romagnano III livv. AF-AE; Pradestel liv. M) 7950-7400 a.C. associazione di triangoli, per lo più isosceli, spesso a tre lati ritoccati, segmenti e punti a due dorsi lunghe;
– S. MEDIO: ( Romagnano III livv. AC3-AC9; Pradestel livv. H1-H2) 6550-6200 a.C. associazione di triangoli scaleni lunghi a base corta, ritoccati su tre lati, e punti a due dorsi corte;
– S. FINALE: ( Pradestel, liv. F; Vatte di Zambana) 6200-5800 a.C.
All’inizio del Castelnoviano (5800-4500 a.C.) i triangoli vanno scomparendo e si gha una trasformazione tecnologica caratterizzata da un affinamento nella tecnica di scheggiatura che consente di ottenere da nuclei piramidali lame molto regolari, utilizzate per la fabbricazione di armature trapezoidali con la tecnica del microbulino. Ai trapezi, spesso muniti di piquant trièdre, si associano lame e lamelle a incavi o a margini denticolati (lame Montbani), utilizzate, secondo alcuni autori, per decorticare i rami.
La fase finale del Castelnoviano (identificata nel liv. AA di Romagnano III e nel liv. A di Pradestel) vede la comparsa di frammenti ceramici ed è per tanto correlabile al Neolitico iniziale.
In generale si osserva l’uso di selce di buona qualità associata al cristallo di rocca delle Alpi Aurine. Parallelamente all’industria litica si sviluppa quella su osso e corno per la fabbricazione di arpioni, punteruoli, spatole e ascie.

Cambiamenti climatici e trasformazione del paesaggio: la rivoluzione verde.
Il termine Mesolitico designa un periodo della preistoria caratterizzato da microliti di forma geometrica, successivo all’ultima glaciazione e anteriore al diffondersi dell’agricoltura, intermedio quindi tra Paleolitico e Neolitico. In realtà i limiti cronologici superiore e inferiore sono un po’ fluidi e variano da regione a regione. Il processo del cambiamento in alcune regioni fu graduale e affonda le sue radici nell’età tardo-glaciale, quando, specialmente nelle zone mediterranee, i cacciatori-raccoglitori paleolitici cominciarono ad adattarsi ad un ambiente che diventava sempre più temperato.
L’arco di tempo interessato dalle culture mesolitiche è caratterizzato da grandi cambiamenti climatici che trasformarono profondamente i territori ed i paesaggi europei, creando nuovi ambienti naturali. Negli ultimi tempi del Tardoglaciale ebbe inizio il processo di deglaciazione. In base allo studio dei foraminiferi dei sedimenti del fondo dell’Atlantico e alle variazioni degli isotopi stabili dell’ossigeno e del carbonio nei ghiacciai della Groenlandia, è stato calcolato che l’aumento della temperatura durante l’interstadiale di Alleröd (10800-9900 a.C.) sia stato di oltre 7 gradi. Il paesaggio della tundra scomparve dalla maggior parte della Francia e dell’Europa centrale e con esso la renna. Il fronte dell’immensa calotta glaciale che scendeva fino ai Paesi Bassi, alla Germania settentrionale e al nord della Russia cominciò ad arretrare, mentre i grandi ghiacciai della catena alpina si ritiravano alle medie ed alte quote. Nel successivo Dryas III, tra 9900 e 9300 a.C., il clima diventò nuovamente molto freddo, ma la renna non tornò più nei territori abbandonati e le fronti glaciali non scesero più a latitudini e a quote così basse come quelle raggiunte prima dell’oscillazione calda di Alleröd.
Con la fine del Dryas III verso il 9300 a.C. termina il Pleistocene, l’età delle glaciazioni, ed ha inizio l’Olocene, il periodo geologico recente in cui ancora viviamo, caratterizzato da un clima sostanzialmente simile a quello attuale, con oscillazioni di temperatura e umidità/aridità piccole in confronto a quelle pleistoceniche.
La successione delle zone polliniche definita per la prima volta nell’Europa settentrionale scandisce i tempi olocenici, vale a dire gli ultimi 1100 anni della storia della terra: Preboreale ( 9300-7825 a.C.), dal clima temperato e secco; Borale (7825-6800a.C.), dal clima caldo e umido, ma con oscillazioni fresche e umide; Sub-Atlantico (da 800 a.C. ad oggi, fresco e umido, con oscillazioni calde).
Nel corso del Preboreale e del Boreale la temperatura aumentò progressivamente, per raggiungere il suo massimo nell’Atlantico, le grandi calotte glaciali dei poli diminuirono di volume e si innalzò il livello degli oceani e dei mari. In 2500 anni il livello del mare salì di circa 60 metri, attestandosi a -40/-20 rispetto alla quota attuale, che sarà raggiunta soltanto tra la fine dell’Atlantico e l’età storica. Verso il 7300 a.C. l’Inghilterra rimase separata dal continente. Nella penisola scandinava all’aumento del livello del mare corrispose il fenomeno isostatico di sollevamento delle terre liberate dal peso delle enormi masse di ghiaccio: in conseguenza di questi fattori contrastanti l’area del golfo di Bothnia passò da lago sbarrato dai ghiacci a mare a Yoldia, quindi a lago ad Ancylus, per ritornare verso il 5500-5000 a.C. ancora a mare (a Litorina).
La piattaforma continentale invasa dalle acque della Manica, del Mare del Nord e del Baltico fu persa per l’insediamento umano, ma contemporaneamente si liberavano spazi ancora più grandi per lo scioglimento della calotta glaciale.
Ai cambiamenti nell’estensione della terra e del mare si accompagnarono le trasformazioni del paesaggio: la grande foresta temperata si diffuse progressivamente da sud verso nord, soppiantando i paesaggi aperti della tundra.
Nell’Europa centro-settentrionale alla foresta rada di betulle e pini del Preboreale, seguì quella di Pini e il massimo della diffusione del Nocciolo nel Boreale, quindi la foresta densa del Querceto misto (quercia, olmo, ontano, carpino).
I grandi branchi di erbivori migratori di grossa taglia che popolavano gli spazi aperti della tundra scomparvero: alcuni come il mammuth, il rinoceronte lanoso o il cervo gigante si estinsero, altri come la renna migrarono verso le latitudini più settentrionali o verso est come il cavallo, e furono sostituiti dal cervo, dal cinghiale, dal Bos primigenius, dal daino e nelle aree montane dall’alce, animali che vivono in gruppi più piccoli e che non hanno un marcato comportamento migratorio. Nel bosco denso che ricoprì l’Europa crebbe il numero e la varietà della piccola fauna di mammiferi.
La sommersione della piattaforma continentale determinò condizioni favorevoli per la ricchezza in quantità e diversità della fauna marina nelle acque poco profonde lungo le zone costiere e lo stesso fenomeno si verificò in molte aree lagunari e lacustri.

Nuove strategie economiche e nuove tecniche di caccia: l’invenzione dell’arco.
Gli eco-sistemi postglaciali erano più complessi e meno stabili di quelli dell’età tardo glaciale, poichè i cambiamenti stagionali nella vegetazione e nella fauna diventarono più marcati e la quantità e il numero delle specie animali più suscettibili di fluttuazioni  periodiche, non sempre prevedibili. Con l’estensione della foresta temperata si verificò una diminuzione della biomassa dei grandi erbivori gregari, che costituivano l’ineusaribile fonte di cibo delle popolazioni del Paleolitico Superiore. Questo fatto, unitamente alla scomparsa della grande arte delle caverne, ha indotto a ritenere il mesolitico un periodo di decadenza. In realtà, di fronte ai grandi cambiamenti ambientali i Mesolitici hanno saputo adottare nuove strategie economiche, consistenti nello sfruttamento di una gamma più ampia di biotipi e in modo più intenso e completo: caccia grande e piccola caccia, pesca, uccellagione, raccolta intensiva dei molluschi e di tutte le risorse vegetali disponibili. Per realizzare le nuove strategie economiche erano necessarie nuove tecnologie e il Mesolitico fu un periodo di significative conquiste anche nel campo della tecnologia.
L’evoluzione delle industrie litiche è una conseguenza diretta dei cambiamenti nelle tecniche della caccia. La caratteristica principale delle industrie mesolitiche è il microlitismo. Dai nuclei di selce si ottenevano lamelle e microlamelle, che erano ritoccate per fabbricare strumenti di piccole dimensioni, a volte di piccole dimensioni, a volte di pochi millimetri di lunghezza. I microliti erano destinati a essere inseriti in un supporto di legno o di osso e fissati con resina di corteccia di betulla o di altre essenze vegetali (pino, agrifoglio, vischio, cardo), a volte impastata con cera d’api e riscaldata a fuoco lento. La proliferazione delle armature microlitiche, spesso di forma geometrica (semiluna, triangoli, trapezi) corrisponde all’uso ormai generalizzato dell’arco.
Il propulsore, caratteristico del Paleolitico Superiore, permetteva di scagliare giavellotti o arpioni a breve distanza ed il suo uso era possibile in spazi apertissime la tundra, ma non nella foresta temperata. Per cacciare il cervo o il cinghiale nella foresta era indispensabile un’arma più veloce e precisa: l’arco.
La grande quantità di armature microlitiche nei siti mesolitici è la prova indiretta della caccia con l’arco. Gli archi e le frecce più antichi finora ritrovati provengono dall’Europa Settentrionale. A Stellmoor, un sito della cultura di Ahrensburg, è stato trovato un arco in legno di pino, databile al Dryas III. Le frecce in legno di pino con armature microlitiche fissate con resina di pino scoperte a Loshult nella Svezia meridionale risalgono al Preboreale. Le frecce di Vinkel e di Holmegaard, sempre in pino, e gli archi di Holmegaard, in legno di olmo, lunghi 1,5 – 1,9 m., sono di età boreale e appartengono alla cultura di Maglemose.
E’ probabile che l’arco sia stato inventato  già alla fine del Paleolitico Superiore e che fosse di uso corrente nelle culture epigravettiane dell’area mediterranea e in quelle epipaleolitiche del vicino Oriente, dove i microliti erano già ampiamente diffusi e le trasformazioni ambientali prodotte dal miglioramento del clima avvennero precocemente rispetto all’Europa continentale e settentrionale.
Per comprendere l’importanza dell’arco bisogna tenere presente che la capacità di penetrazione di un proiettile si deve all’energia cinetica che conserva al momento dell’ impatto, la quale è funzione della massa e della velocità. Con il propulsore si possono scagliare lance, giavellotti, arpioni anche fino a 100 m., ma la velocità è bassa e la precisione scarsa, per cui è necessario avvicinarsi molto alla preda per avere successo.
Al contrario, la tensione della corda dell’arco conferisce alla freccia una velocità molto elevata, superiore a 100 km. all’ora. Una freccia del peso di 15-30 gr. Compie una traiettoria di 100 m. in poco più di 3 secondi e conserva un’energia d’impatto superiore ai pallini da caccia di calibro 14. Alla velocità l’arco unisce una grande precisione di tiro: non è più necessario avvicinarsi molto alla preda, poichè un animale avvistato a 60-70 m. di distanza è virtualmente morto. Le armature microlitiche pesano in genere tra 0,5 e 2,0 gr. e rispondono quindi perfettamente ai requisiti richiesti per una freccia.
La maggiore efficacia nella caccia resa possibile dall’arco, unitamente alle nuove strategie economiche di sfruttamento di una più ampia gamma di risorse, ha avuto rilevanti conseguenze sociali e culturali: maggiore sicurezza di cibo ha prodotto un incremento demografico tra le 5 e le 10 volte rispetto al Paleolitico Superiore; grazie all’arco le bande di cacciatori, a differenza di quanto avveniva nel Paleolitico, possono essere più piccole e più autonome e le comunità possono essere formate soltanto da poche famiglie; rispetto all’azione collettiva richiesta dalla caccia ai grandi branchi di erbivori gregari del Paleolitico acquista maggiore importanza l’azione del singolo cacciatore.
Minore dimensione dei gruppi e forte incremento demografico determineranno un’occupazione più capillare del territorio e una maggiore diversificazione culturale.
Gli abitati mesolitici sono piccoli e di breve durata, per lo più soltanto stagionale. Le abitazioni, costruite in materiali leggeri e deperibili, hanno lasciato poche tracce: buche di palo disposte in modo da delimitare uno spazio circolare, ovale o quadrangolare, allineamenti o cerchi di pietre che servivano per bloccare la base di tende rotonde o rettangolari, piattaforme di travi e cortecce di betulla, conservatesi negli ambienti umidi, pavimentazioni di pietre. La frequentazione di ripari sotto roccia è ben documentata soprattutto nell’Europa meridionale e nella regione alpina.

Ambiente ed economia.
Lo studio dei pollini, dei carboni, dei resti micro-e macro-faunistici raccolti in ciascun livello nei siti pluristratificati di Romagnano, Pradestel e Vatte di Zambana (TN) ha permesso di delineare l’evoluzione del clima e dell’ambiente dall’inizio dell’età olocenica.
L’area della Val d’Adige sembra essere stata interessata da un ritiro dei ghiacciai già durante il tardoglaciale; a quell’epoca un grande bacino lacustre era racchiuso tra le morene della conca di Trento. L’aumento progressivo della temperatura, non accompagnato da un analogo incremento nella piovosità, causò l’insorgere di un clima caldo e arido, con la conseguente scomparsa della flora e della fauna pleistoceniche e determinò la diffusione di associazioni faunistiche e floristiche mediterranee anche in aree montane. Le fasi più antiche del Mesolitico, ricadenti nei periodi climatici Preboreale e Boreale, vedono ancora un’ampia diffusione del pino silvestre montano e di micromammiferi che prediligono ambienti freddi (es. microtus nivalis). Tra gli animali cacciati prevale decisamente lo stambecco. In seguito si assiste a una sensibile diminuzione di tali specie, a favore di specie termofile: ha inizio così la diffusione dei boschi di latifoglie e del querceto misto, che culminerà nel periodo Atlantico, alla cui fase iniziale sono riferibili le industrie castelnoviane. Anche l’incidenza dello stambecco diminuisce a favore di specie caratteristiche degli ambienti forestali quali il cervo, il capriolo e il cinghiale.
L’economia del Mesolitico si basa sullo sfruttamento di risorse alimentari molto diversificate: le tradizionali attività di caccia ai grandi mammiferi vengono integrate da pesca, raccolta di molluschi di acqua dolce (Unio) e uova, caccia a tartarughe, lontre, castori, uccelli.
Le condizioni climatiche e ambientali sembrano aver influenzato in misura notevole le scelte insediative delle comunità di cacciatori-raccoglitori mesolitici. Durante il Sauveterriano ai siti di fondovalle (es. Romagnano Loc. III, Pradestel, Vatte di Zambana, Riparo Gaban, Riparo Soman) si associa l’occupazione di aree ad alta quota, tra i 1800 e 2300 m. Si tratta per lo più di ripari o di siti all’aperto, ubicati in prossimità di zone di passo o di bacini lacustri sulle Dolomiti, sulle Alpi Aurine e Sarentine, sul M. Baldo e sul M. Pasubio. Tra i più importanti si possono citare i siti dei Laghetti di Colbricon (1908-2100 m), quelli del Passo Oclini, del Pian dei Laghetti, del Lago delle Buse, e il riparo I del Plan de Frea, in Alta Val Gardena (1930 m.). La frequentazione di siti d’alta quota, ai limiti tra i boschi e le praterie, è stata messa in relazione alla caccia allo stambecco e al camoscio, animali costretti a migrare in aree montane montane in seguito ai mutamenti climatici insorti con l’oscillazione di Allerod : si tratterebbe dunque di accampamenti stagionali secondari, complementari a quelli di fondovalle. Lo studio dei manufatti litici consente di formulare ipotesi circa la funzione dei diversi siti: a Colbricon 1, per esempio, è stata messa in luce un’area di officina litica, adiacente a un focolare; si tratterebbe dunque di un bivacco  in cui si confezionavano strumenti per la caccia. Al contrario, il sito 6, a quota più elevata, ha restituito solo alcune categorie di manufatti, con predominio delle armature, che suggeriscono una sua funzione di sito di avvistamento della selvaggina.
Vi sarebbero dunque siti di sussistenza, ubicati in prossimità del lago, e siti di crinale, ad essi complementari, adibiti all’avvistamento e alla caccia.
Durante il Castelnoviano si assiste invece a una generale attenuazione della frequentazione della località d’alta quota, causata verosimilmente dalla graduale scomparsa dello stambecco; ai siti di fondovalle, che continuano ad essere occupati, si assoociano ora siti di collina e di pianura. Siti castelnoviani sono noti anche nell’area occidentale (M. Cornizzoli-CO-, Liguria) e sull’Appennino Tosco-emiliano (Passo della Comunella, Lama Lite-RE-).

Le strutture d’abitato.
I dati relativi alle strutture abitative del Mesolitico sono purtroppo molto lacunosi : a Romagnano Loc III, nel livello AC datato al Sauveterriano, si sono rinvenuti resti di una capanna parzialmente distrutta dai lavori di cava; si tratta di una depressione circolare interpretata come fovea per il focolare, di una buca di palo e di un acciottolato piuttosto regolare. Una buca analoga e diversi pozzetti sono stati messi in luce anche al Riparo Gaban.
Nel riparo I di Plan de Frea I (Sauveterriano medio) è stato portato alla luce un fondo di capanna di forma piriforme, leggermente infossato e addossato alla parete del riparo. Una serie di grosse pietre poste lungo il perimetro aveva forse lo scopo di ancorare la copertura di pelli.
Il sito 1 del Colbricon (Sauveterriano antico, 7420+-130 a.C.) presenta una fovea per focolare, accanto a cui si sono distinti aree con concentrazioni di manufatti di diverse categorie, una delle quali interpretabile come officina litica.

Arte e spiritualità.
Piuttosto diffuso durante il Mesolitico è l’utilizzo di sostanze coloranti e di oggetti ornamentali. Si tratta per lo più di conchiglie marine o d’acqua dolce, di vertebre di pesci, canini di cervo, frammenti di ossa o ciottoli, tutti forati per la sospensione come ciondoli di collane o bracciali o per essere cuciti ai capi di vestiario. Essi sono ben documentati a Romagnano III, Pradestel, Vatte, Gaban, Bus de la Vecia, riparo Frea IV e nella grottina dei Covoloni del Broion. Manufatti artistici sono stati rinvenuti al Riparo Gaban, sito in cui oggetti analoghi sono documentati anche nei livelli neolitici. Essi erano stati deposti all’interno di buche rimaneggiate già in età mesolitica (vi si trovano infatti mescolati manufatti sauveterriani e castelnoviani). Una figura femminile è stata ricavata a bassorilievo dalla sezione apicale di un ramo di corno cervino forata longitudinalmente. Una gola al di sotto dell’apice consentiva forse la sospensione, mentre la perforazione longitudinale poteva fungere da immanicatura per uno strumento. Le superfici sono fortemente usurate e combuste. Un oggetto analogo presenta incisioni parallele, motivi a zig-zag e triangoli e residui di ocra rossa. Vi sono poi cilindretti ricavati da sezioni di diafisi di ossa lunghe, decorati a tacche, punti, zig-zag, reticoli. Alcuni punteruoli e un metacarpo di orso decorati a tacche e con tracce d’ocra sono stati recuperati anche a Romagnano Loc III.
Si conoscono inoltre alcune sepolture: la prima è stata messa in luce nel Riparo di Vatte di Zambana; si tratta di un individuo di sesso femminile, alto ca. 1,52 m. e dell’età di cinquant’anni circa. La testa era appoggiata ad un gradino formato dalla roccia e il volto era rivolto a sinistra. Il tronco era adagiato in una fossa poco profonda, con orientamento NW-SE. Le braccia erano stese parallelamente ai fianchi, gli avambracci flessi e le mani si riunivano all’altezza del pube. Un tumulo di pietre ricopriva cranio e tronco. Non è stato ritrovato alcun oggetto di corredo, ma si è notata la presenza di qualche frammento d’ocra al di sotto del cranio. Le datazioni radiometriche ottenute per questa sepoltura oscillano tra 6050±110 e 5790±150 a.C.
Lo scheletro documenta la frattura dell’avambraccio destro guarita senza esiti e una seconda frattura al gomito sinistro guarita in pseudo-artrosi serrata, con conseguenti gravi deformazioni.
Una seconda sepoltura è stata recentemente recuperata nel sito di Mondeval de Sora, in comune di S. Vito di Cadore, a 2150 m. di altitudine. Sotto l’aggetto di un grande masso erratico si sono trovati livelli d’occupazione del Mesolitico antico e recente, dell’età del Rame e di epoca medievale. Nel 1986 fu messa in luce una sepoltura in fossa di età castelnoviana (5380±50 a.C.). L’inumato era un uomo adulto, di circa quarant’anni, alto 1,67 m. e di costituzione robusta. La parte inferiore del corpo era ricoperta di pietre selezionate (pietre vulcaniche e marna calcarea). La mano sinistra, posta verticalmente sul fianco esterno, presentava dita ripiegate come se impugnassero qualcosa. Sul lato destro vi erano tracce di ocra rossa, su quello sinistro un gruppo di 33 reperti, tra cui alcuni strumenti di selce, ciottoli di calcare, un arpione e altri manufatti in osso e corno. Poco più in basso, all’altezza della mano sinistra si sono recuperati altri due gruppi di oggetti litici o in zanna di cinghiale, alcuni dei quali coperti di mastice, e due agglomerati di sostanza organica: il primo costituito per lo più di resine, il secondo di cera d’api e propoli. Si può pensare che questi gruppi di oggetti fossero stati deposti all’interno di contenitori e che costituissero la dotazione d’uso quotidiano.
Facevano inoltre parte del corredo 3 lame in selce gialla, collocate ciascuna su una spalla e la terza sotto il cranio e 7 canini atrofici di cervo; un punteruolo posto sullo sterno e uno tra le ginocchia servivano forse a chiudere una sorta di sudario in pelle.
Lo studio dello scheletro ha evidenziato la frattura di un dito della mano destra perfettamente guarita e una osteopatia deformante all’emitorace sinistro. L’uomo mesolitico di Mondeval de Sora appartiene alla razza di Cro-Magnon, già presente in Europa durante il Paleolitico Superiore.

Il Mesolitico nella provincia di Brescia.
Le prime scoperte risalgono alla seconda metà dell’ ‘800 durante lo sfruttamento delle torbiere di Iseo. Dopo un lungo periodo di assenza di ricerche in questo settore della preistoria, indagini di superficie, talora seguite da scavi regolari, a partire dagli anni  ’70 hanno fatto conoscere diversi siti mesolitici nelle valli bresciane e nell’anfiteatro morenico del Garda. Le recenti e importanti scoperte nel territorio del comune di Lonato si devono tutte al Gruppo Archeologico di Desenzano, grazie in particolare all’attività di S. Colombo, O. Righetti e F. Verardi.

Le industrie sauveterriane del Mesolitico antico.
Complessi a triangoli sono stati individuati a est e ovest del passo di Ravenola, sella naturale che separa Val Camonica e Val di Caffaro. Lungo la sponda nord del lago ovest di Ravenola (1943 m. slm) e quella ovest del laghetto Dasdana (1875 m. slm) sono stati raccolti nuclei, punte a dorso, micro e ipermicro-lamelle.
Ricerche di superficie condotte tra 1987 e 1989 lungo la sponda nord-est di un laghetto inframorenico ormai intorbato a sud di Castel Venzago, hanno portato alla scoperta di due siti, uno dei quali – Cascina Navicella 1 – ha restituito 5 triangoli, insieme a segmenti, punte a due dorsi, punte-troncature, nuclei e microbulini. Un geometrico triangolare e un microbulino sono stati rinvenuti lungo la sponda sud del medesimo bacino. L’alta percentuale di triangoli scaleni lunghi a base corta induce a inquadrare il sito nell’ambito del Sauveterriano medio-recente, che ricade nel periodo climatico Boreale. Il vicino sito di Cascina Navicella 2 ha invece restituito manufatti castelnoviani. Un complesso a triangoli è stato recentemente individuato presso Cascina Val Maione lungo la dorsale tra media Val Camonica e alta Val Trompia.

Industrie Castelnoviane.
Una fase di transizione tra Sauveterriano e Castelnoviano pare rappresentata nel sito Sopra Fienile Rossino, sull’altopiano carsico di Cariadeghe (925 m. slm) a nord di Serle e a sud del passo che conduce alla Val Sabbia.
Nel corso di alcune campagne di scavo è stata messa in luce una struttura a pozzetto  con adiacente buca di palo, riempita di terreno ricco di materiale organico, frustoli carboniosi e manufatti litici. Sono stati rinvenuti grattatoi, troncature, becchi, triangoli, ipermicroliti e molti trapezi, per lo più in selce locale.
La presenza di nuclei, prenuclei e microbulini dimostra che la materia prima era scheggiata in loco. Si è ipotizzato che questo sito fosse occupato solo stagionalmente e fosse complementare agli altri segnalati sul medesimo altopiano, per lo più in corrispondenza di una via di comunicazione con la pianura a sud, le valli di Caino a ovest e la Val Sabbia a nord e nord-est. Le analisi condotte sui carboni e su resti vegetali hanno consentito una ricostruzione del clima e dell’ambiente: in seguito a un aumento della temperatura e dell’umidità, caratteristico del periodo Atlantico, si ha lo sviluppo di boschi a latifoglie con quercia, frassino, faggio, acero, salice, mentre Cyperaceae e Typha indicano che doveva trattarsi di un ambiente palustre. La presenza di gusci di nocciola ha portato a pensare che la frequentazione avvenisse tra l’inizio dell’autunno e la primavera. La datazione radiocarbonica colloca il sito all’inizio del periodo climatico Atlantico (4860 a.C. ca.).
Sullo spartiacque tra Val Trompia e Val Camonica sono stati identificati alcuni siti dislocati lungo le sponde dei laghetti del Crestoso, a 2000 m. slm., uno dei quali è oggetto di scavo dal 1987. Il livello antropico è interessato dalla presenza di un focolare, i cui carboni hanno fornito una datazione di 4840 + o –  120 a.C., di pozzetti ricchi di carboni e ciottoli e di buche di palo che forse delemitavano un atelier litico. L’industria è su selce di provenienza non locale, ma gli strumenti furono fabbricati sul posto partendo da quattro nuclei e la maggior parte di essi non sembra essere stata usata. Il 70% degli strumenti è costituito da geometrici, per lo più  trapezi. Il diagramma pollinico indica un incremento della vegetazione termofila a spese del pino e delle conifere. L’ambiente doveva essere ricco di foreste e la frequentazione umana sembra essersi limitata a una breve stagione.
Siti castelnoviani sono documentati sopratutto nell’area delle colline moreniche: presso le torbiere di Iseo e a Provaglio, a Case Vecchie presso Lonato, al Lavagnone (Desenzano), a Cascina Navicella 2 e Fornasetta (Lonato), ad Abbadia S. Vigilio (Pozzolengo). Nel sito di Monte Gabbione, un piccolo bacino inframorenico ai piedi dell’omonimo rilievo  tra Castel Venzago e Pozzolengo, sono stati rinvenuti trapezi, grattatoi, troncature e nuclei.
Il ritrovamento di armature trapezoidali in associazione a fauna esclusivamente ittica al Sasso di Manerba, ha indotto all’ipotesi che esse fossero pertinenti ad arpioni per la pesca.

Durante il periodo Boreale sono attestati sopratutto siti ad alta quota o su fondo valle, in prossimità di laghetti e di zone di passo; essi appaiono occupati stagionalmente per attività venatorie. I ritrovamenti di Cascina Navicella 1 mostrano tuttavia che fin dal Sauveterriano erano frequentate anche le sponde dei bacini lacustri inframorenici. Le mutate condizioni climatiche all’inizio del periodo Atlantico portarono a uno stanziamento più stabile in prossimità di stagni e laghi della fascia sub-alpina e le frequentazioni dei siti ad alta quota diventarono più sporadiche.

Sezione III. L’Età del Bronzo nell’area benacense.
Questa sezione intende offrire un quadro generale delle culture sviluppatesi nell’arca benacense e padana tra il 2200 e il 1200 / 1150 a.C. Due pannelli sull’età del Bronzo in Europa forniscono notizie sui fenomeni generali che caratterizzano quest’epoca, dalla colonizzazione di nuove terre a scopo agricolo al sorgere di abitati stabili di lunga durata, dalla diffusione della metallurgia del bronzo al moltiplicarsi degli scambi anche a grande distanza, dall’affermarsi di piccole“aristocrazie” all’interno di società ancora poco stratificate alla trasformazione delle credenze religiose e dei riti funerari.  Tre vetrine presentano materiali ceramici esemplificativi delle fasi più arcaiche e di quelle più recenti della cultura di Polada e della cultura terramaricola della media età del Bronzo. 1 materiali provengono principalmente dagli scavi e dalle raccolte di superficie effettuati al Lavagnone.
Due pannelli sono dedicati al tema delle palafitte, il tipo di abitazione caratteristico degli ambienti umidi dell’età del Bronzo.  Sono quindi esposti due modellini di palafitte in scala 1 : 25, realizzati sulla base dei dati emersi dagli scavi di Fiavé, nelle Giudicarie trentine, il sito che ha fornito la documentazione più completa finora disponibile su un insediamento palafitticolo dell’Italia settentrionale.
Il primo modellino riproduce le strutture dell’abitato della cd. zona 2 di Fiavé, risalente alle fasi più recenti del Bronzo Antico e al primo periodo del Bronzo Medio (ca. 1850-1500 a.C.). Questo abitato era situato a ca. 100 metri dall’antica sponda meridionale del laghetto ed era formato da case su pali con impalcato aereo soprastante lo specchio d’acqua.  Il fitto campo di pali era delimitato verso nord da un allineamento che probabilmente costituiva il perimetro del villaggio.  La maggior parte dei pali doveva avere funzione di costipazione del fondo lacustre argilloso, in cui affondavano per una profondità di 5 metri.  Altri pali avevano funzione di strutture portanti dell’impalcato aereo su cui sorgevano le case.  Quando si sono conservate le sommità di questi pali, vi sono insellature a forcella e uno o due fori passanti di forma quadrangolare, che servivano per il fissaggio delle assi costituenti la piattaforma.  Tra i pali, nel corso del tempo si sono formati strati antropizzati cumuliformi ricchissimi di materiale archeologico.
Il secondo modello ricostruisce il villaggio sorto su un isolotto di forma ovale, a nord-ovest della cd. zona 2, nel corso del Bronzo Medio dopo l’abbandono del precedente villaggioPalafitticolo, a causa, forse, di una risalita del livello del laghetto.
Le case della parte centrale dell’isolotto poggiavano direttamente sul suolo, mentre quelle lungo la riva periodicamente allagata erano case su pali, costruite adottando nuove soluzioni tecniche, che garantivano una maggiore stabilità delle fondazioni e comportavano un risparmio di materia prima e di lavoro.  Sulla fascia spondale i pali sono infissi per soli due metri e sono resi stabili da un complesso sistema di plinti fra loro collegati a formare un reticolo.
Sulla forma e la disposizione delle case che sorgevano sull’impalcato aereo sappiamo molto poco e la ricostruzione presentata é ipotetica.  Le pareti erano certamente costruite col sistema del graticcio (o incannucciato) intonacato d’argilla cruda e la copertura del tetto era probabilmente in paglia pressata.

Sezione IV. Attività artigianali nell’Età del Bronzo.
Quattro vetrine presentano i principali manufatti prodotti dalle attività artigianali dell’età del Bronzo, esclusa la ceramica.
La prima vetrina espone strumenti di selce scheggiata provenienti dal Lavagnone e da altri siti del territorio.  Si tratta di cuspidi di freccia a ritocco piatto coprente bifacciale, di diverse fogge (a peduncolo ed alette, a basa concava), di raschiatoi foliati di forma quadrangolare, di grattatoi, di elementi di falcetto che erano montati in serie su supporti di legno.  Sul taglio di queste lame di selce é possibile osservare con chiarezza una patina lucente che é stata prodotta dallo sfregamento contro le microscopiche particelle silicee, i fitoliti, contenute nello stelo dei cereali.
La presenza della patina translucida indica quindi l’ uso effettivo del reperto durante la mietitura.  Prove sperimentali effettuate con lame di selce della Palestina hanno dimostrato cheoccorrono circa 10.000 colpi prima che si produca una patina sufficientemente intensa, un periodo di tempo più lungo di quanto si potesse prevedere (tuttavia ciò dipende certamente anche dalla qualità della selce utilizzata).
Sulla parete di fondo della vetrina un disegno mostra l’utilizzo come “bracciale d’arciere” di un manufatto frequentemente rinvenuto nei siti dell’antica età del Bronzo dell’area benacense.  Si tratta di placchette di pietra levigata, per lo più di forma rettangolare, relativamente sottili e a faccia piana, lavorate con cura e munite di uno o due fori alle due estremità.  Secondo l’interpretazione più comunemente ammessa, si tratterebbe di un dispositivo a protezione del polso contro il violento rimbalzo della corda dell’arco.  Secondo altre interpretazioni si tratterebbe invece di pietre per affilare oppure di oggetti ornamentali.
L’osso, soprattutto dei mammiferi domestici come il bue, il maiale, la capra e la pecora, e il corno di cervo o di capriolo costituivano nella preistoria una importante fonte di materia prima per fabbricare strumenti, in genere di piccole dimensioni, che avevano il pregio di essere molto resistenti ai processi di usura.  La seconda vetrina presenta una serie di manufatti di osso e di corno provenienti principalmente dal Lavagnone.
Durante l’età del Bronzo, specialmente antica e media, in osso venivano prodotti punteruoli, lesine, aghi, spatole, lisciatoi.
I punteruoli erano prodotti utilizzando ossa lunghe come ulna, radio o fibula di bue, capra, pecora o maiale oppure metapodi di capra, pecora o capriolo.  Nel primo caso la base rimaneva costituita dall’epifisi intera o dimezzata utilizzata come impugnatura, la parte distale veniva modificata in maniera più o meno importante per raschiatura e levigatura.  Questi punteruoli sono molto abbondanti negli insediamenti palafitticoli.  Impugnati direttamente dalla mano e ruotati alternativamente da sinistra a destra per perforare, erano certamente utilizzati in rapporto alla lavorazione delle pelli.  Gliaghi per cucire le pelli erano ricavati in genere da fibule di maiale o da schegge di ossa lunghe, le spatole e i lisciatoi per lo più da costole di bovide.
In tutti questi strumenti la punta o l’estremità distale appaiono molto lisce e lucidate, effetto di un uso prolungato.  Resti di palchi di corna di cervo sono molto frequenti negli abitati dell’età del Bronzo e servivano per fabbricare una quantità di strumenti e di oggetti di ornamento: guaine per l’immanicatura delle asce, zappette, manici di lesine e punteruoli di metallo, manici di acciarin in selce, cuspidi di freccia di forma conica o piramidale, pomi di impugnature di pugnali, montanti di morsi, ganci da cintura, spilloni, capocchie di aghi crinali, pettini che potevano essere strumenti da lavoro per la tessitura oppure oggetti di uso ornamentale.  Spesso gli oggetti in corno di cervo venivano decorati con incisioni a occhi di dado.
Per la confezione di tutti questi manufatti erano utilizzati i palchi di corna caduti naturalmente in seguito alla muta, poiché sono più resistenti e più calcificati.
La terza vetrina presenta una serie di oggetti ornamentali caratteristici dell’età del Bronzo nell’area gardesana e padana: denti animali forati, tubetti di dentalium fossile, conchiglie forate, perline di calcite, perline di pasta vetrosa, perle di ambra.  L’ambra è di origine baltica e negli insediamenti dell’ltalia settentrionale compare per la prima volta verso la Fine dell’antica età del Bronzo.  Da questo momento la via dell’ambra, che dalle coste del Baltico attraverso l’Europa centrale e balcanica raggiungeva il Mediterraneo, rimarrà aperta ininterrottamente fino all’età romana.
La quarta vetrina presenta una esemplificazione di prodotti della metallurgia dell’età del Bronzo: asce e lame di pugnale, innanzitutto, e poi lesine, punteruoli, scalpelli, falci, coltelli e oggetti relativi all’abbigliamento come gli spilloni.
Nel corso dell’età del Bronzo gli utensili e gli strumenti da lavoro che per millenni erano stati fabbricati in pietra levigata
o scheggiata o in osso, vengono gradualmente sostituiti da manufatti in metallo.

Sezione V. L’aratro del Lavagnone e l’agricoltura preistorica.
La quinta ed ultima sezione del Museo è interamente dedicata al Lavagnone e all’aratro scoperto nella palafitta del Bronzo Antico.  Due pannelli e tre vetrine di materiali illustrano la storia delle ricerche e le vicende insediative del Lavagnone durante la preistoria.
Il bacino del Lavagnone è una delle tante piccole conche lacustri che caratterizzano il paesaggio dell’anfiteatro morenico del Garda.  Nei primi tempi postglaciali era occupato da un lago, che nel corso dei millenni successivi si è progressivamente ridotto fino a lasciare una conca di circa 30 ettari con al centro una palude.  Agli inizi dei ‘900 il Lavagnone era ancora in gran parte uno stagno.  Per sfruttare i depositi di torba e bonificare i terreni, venne scavato un fosso scolmatore che partendo dal centro del bacino attraversava poi verso nord-ovest le colline moreniche mediante una galleria.
Lo sfruttamento della torba fu l’occasione per la scoperta dei primi manufatti archeologici e dei resti di una palafitta.
L’avv.  Mosconi, di Desenzano del Garda, seguendo i lavori di estrazione della torba, poté costituire una interessante collezione di materiali dell’età del Bronzo, ora donata dagli eredi al comune di Desenzano.
Dopo la bonifica l’alveo lacustre é stato trasformato in campi coltivati e ogni anno le arature e il dilavamento delle piogge fanno affiorare in superficie importante materiale archeologico.  Una serie di campagne di scavo, promosse dal museo preistorico-etnografico L. Pigorini di Roma, vi furono condotte nel 1971 da B. Barich e dal 1971 al 1979 da R. Perini.  Nel 1989 gli scavi sono stati ripresi dalla cattedra di paletnologia dell’Università degli Studi di Milano, sotto la direzione del prof.  R.C. de Marinis.  L’importanza del Lavagnone deriva dal fatto che fu frequentato ininterrottamente per tutto il corso della tarda preistoria, dal Mesolitico fino alla fine dell’età del Bronzo.  Quando lo specchio d’acqua era ancora abbastanza ampio, gruppi mesolitici e poi neolitici si insediarono lungo le sponde specialmente nord-orientali del bacino, come é indicato dai numerosi strumenti di selce scheggiata (trapezi, romboidi, grattatoi, perforatori, cuspidi di freccia foliate a faccia piana) raccolti in superficie.  Alcuni reperti tardo-neolitici e dell’età del Rame provengono dalle sponde meridionali del bacino.  Nell’età del Bronzo il laghetto andò sempre più restringendosi alla sola parte centrale della conca e lungo la linea di riva settentrionale sorse un esteso villaggio palafitticolo della cultura di Polada, distrutto in seguito da un incendio. I suoi resti furono ricoperti da formazioni torbose e successivamente sugli strati torbosi essicati si impostò un nuovo abitato della fine della cultura di Polada.  Attraverso varie fasi il nuovo villaggio continuò a esistere sino alla media età del Bronzo, nel corso della quale si verificò un progressivo spostamento dell’abitato verso le zone più elevate del bacino, lungo la sponda nord-orientale.  In quest’area l’abitato continuò a sussistere durante il Bronzo Recente (XIII secolo a.C.) e una sporadica frequentazione durante il Bronzo Finale (XII-X secolo a.C.) é attestata dallo splendido coltello in bronzo a lama serpeggiante recuperato durante un’aratura dal conduttore del fondo, signor P. Pegoraro.  Ma il reperto più straordinario del Lavagnone rimane l’aratro scoperto durante gli scavi del 1978 condotti da R. Perini.  Fu rinvenuto incastrato tra i pali dell’insediamento palafitticolo degli inizi del Bronzo Antico.  Databile intorno al 2000 a.C., é il più antico aratro che sia giunto fino a noi.  Costruito interamente in legno, appartiene al tipo di aratro con bure e ceppo-vomere in un unico pezzo, ricavato da una biforcazione di un ramo di quercia.  La stegola era inserita a incastro nel ceppo e il vomere vero e proprio, che non é stato ritrovato, era inserito in una scanalatura praticata nella parte inferiore del ceppo.  Sono state ritrovate anche due stegole di ricambio e metà del giogo.  Si tratta quindi di un aratro a zappa, adatto a lavorare terreni già dissodati da tempo e preferibilmente pianeggianti, un tipo che era particolarmente diffuso nell’età dei Bronzo e del Ferro, ma che nelle regioni mediterranee si é manteuto in uso fino all’introduzione dei moderni mezzi a trazione meccanica.  L’aratro é stato collocato in una grande vetrina e sono stati ricostruiti il giogo e la stanga che lo connetteva all’aratro.
Sulla parete che fa da sfondo alla vetrina é stata riprodotta con un dipinto murale la scena di aratura del masso n.2 di Bagnolo in Vai Camonica, databile alla prima metà del III millennio a.C. In questa sezione due pannelli illustrano l’aratro del Lavagnone in tutti i suoi aspetti tecnici e raccontano la storia dell’aratro dalle origini all’età dei Ferro.  Infine, tre pannelli trattano dell’agricoltura preistorica, dalle sue più lontane origini nel Vicino Oriente alla diffusione in Europa, dalla primitiva agricoltura neolitica a zappa e itinerante alle forme più evolute e produttive dell’età del Bronzo.  Nell’Italia settentrionale le genti dell’età del Bronzo furono le prime a colonizzare in maniera sistematica la pianura padana, cominciando a distruggere l’originaria ininterrotta foresta di querce, olmi, carpini, frassini e ontani per trasformarla in una successione di campi coltivati e di pascoli per il bestiame: inizia così a formarsi quel paesaggio totalmente artificiale che é la campagna padana.
L’esposizione si conclude con tre vetrine, in cui sono esposti manufatti connessi alle attività agricole e artigianali dell’età del bronzo: asce di pietra levigata, lo strumento utilizzato per tagliare gli alberi, falci con corpo in legno e lama formata da diversi elementi di selce, inseriti in una scanalatura e fissati con mastice, fusarole e pesi da telaio con un modellino di telaio verticale, ciotole in legno provenienti dal Lavagnone.

Info:
Museo Civico Archeologico “Giovanni Rambotti” – Chiostro di Santa Maria de Senioribus – Via T. Dal Molin, 7/c – 25015 Desenzano del Garda (BS).
Telefono: +39 030 91 44 529 Fax: +39 030 999 42 75
Orari di apertura: martedì – venerdì 15.00 – 19.00; sabato, domenica e festivi 14.30 – 19.00. Il Museo è chiuso il lunedì.

L’ingresso al Museo è libero per tutti i visitatori.
La visita a mostre temporanee potrebbe essere a pagamento.

Accessibilità per disabili: L’accesso ai disabili è possibile attraverso la rampa d’accesso alla biblioteca e successivamente utilizzando l’ascensore fino al primo piano.

Visite guidate: È possibile accedere a visite guidate su prenotazione per scolaresche e gruppi (tel. 030 9994275 oppure 030-9994216, e-mail: cdes.museo@onde.net). Viene richiesto un contributo a titolo di rimborso spese per l’assistenza degli operatori didattici. Sarà inoltre consegnata una dispensa.
Su richiesta è possibile prenotare visite in lingua inglese.

Visite di gruppo: Ai capigruppo od organizzatori di gruppi privati potrà essere chiesto di suddividere i partecipanti in gruppi sufficientemente piccoli così da non rendere difficoltosa la visita stessa. E’ necessario comunque dare comunicazione con qualche giorno d’anticipo contattando il numero 030-9994275 oppure 030-9994216 o inviando una mail a: cdes.museo@onde.net


PUBBLICAZIONI: All’ingresso del museo sono in vedita le pubblicazioni del museo.
Oltre alla guida, il museo sta realizzando anche una collana di brevi guide rivolte ai bambini delle scuole elementari e medie.

Sala audiovisivi: Su richiesta è a disposizione dei gruppi una ricca videoteca.

Supporti didattici: Schede monografiche dedicate ai diversi aspetti della preistoria disponibili gratuitamente lungo il percorso museale.

Fotografie: Sono consentiti fotografie standard, digitali, video o filmati solo a fini non commerciali e per uso personale, salvo altrimenti indicato. La distribuzione e pubblicazione delle immagini ottenute con i mezzi sopra descritti, è vietata con qualunque media, compresi anche i siti web.


Mail: cdes.museo@onde.net
Cronologia: Preistoria

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