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Arianna Traviglia, l’archeologa 3.0 che insegna ai computer come scovare i reperti.

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«Quando ho iniziato a studiare archeologia non avrei mai immaginato di finire ad analizzare dati da satelliti per scoprire strutture antiche nel sottosuolo. E soprattutto non avrei mai pensato di insegnare a una macchina come fare a identificarle».
Arianna Traviglia è la direttrice del Centre for Cultural Heritage Technology dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit), con sede a Venezia presso l’Università di Ca’ Foscari. Traviglia è un «cervello di ritorno». Dopo un dottorato in geomatica e sistemi informativi territoriali e una specializzazione in analisi di immagini da aereo e satellite, grazie ai finanziamenti della Commissione europea per il rientro in Ue dei ricercatori, è tornata a lavorare in Italia dopo otto anni all’Università di Sydney e uno a Seattle.
Traviglia è stata tra i primi in Italia a comprendere che l’archeologia doveva cambiare paradigma e aprirsi a nuovi strumenti.
«Indiana Jones è un personaggio accattivante, ma lontano dalla realtà quotidiana dell’archeologo. Andare sul terreno e scavare resterà sempre centrale nel nostro lavoro, tuttavia ci sono possibilità nuove», spiega Traviglia, secondo la quale ai futuri archeologi saranno richieste anche competenze di informatica e analisi delle foto da satelliti. «Lavoro in un ambiente interdisciplinare che collabora con l’Agenzia spaziale europea attraverso la piattaforma Copernicus».
Copernicus diffonde le immagini dei satelliti Sentinel, che ogni 5-6 giorni coprono con i loro sensori tutta la superficie del pianeta.
Per riuscire a identificare in modo automatico i depositi archeologici sepolti, occorre prima insegnare alle macchine a riconoscerli, fase che viene definita machine learning. Perché anche il programma più sofisticato non sa cosa deve fare se prima non gli viene insegnato come muoversi.
«Dobbiamo insegnare alle macchine a riconoscere le strutture. È un percorso lungo perché dobbiamo trasmettere e replicare sulle macchine i nostri processi mentali di riconoscimento», aggiunge Traviglia. In questo modo i ricercatori saranno in grado di vedere oggetti o irregolarità altrimenti impossibili da scorgere per l’occhio umano, come per esempio tracce nella vegetazione fitta, o su terreni spogli e avvallamenti.
«Abbiamo iniziato da alcuni mesi, al mondo ci sono pochi gruppi in questo settore. È un lavoro lungo perché, prima ancora di cominciare l’addestramento delle macchine, bisogna costruire da zero i dataset di training, cioè le figure di riferimento. Rispetto agli altri gruppi, che si focalizzano solo nel riconoscimento di uno o due tipi di traccia, per esempio una fornace tonda o un recinto rettangolare, forme relativamente semplici da insegnare, noi invece vogliamo insegnare a riconoscere qualunque forma, per esempio una strada romana lineare o una necropoli della età del bronzo che ha forme tipiche. Una macchina impara bene soltanto se le si insegna bene».
Il progetto Cultural Landscapes Scanner Iit-Esa della dottoressa Traviglia non è rivolto solo all’archeologia, ma potrebbe essere impiegato anche in altri campi. «Se un’area da urbanizzare o dove si vuole costruire un centro commerciale nasconde strutture archeologiche che non sono ancora state portate alla luce, è meglio fermarsi prima di iniziare, senza sprecare risorse».
Quali sono i modelli per addestrare il sistema informatico a riconoscere le strutture archeologiche?
«Usiamo dati raccolti nell’area intorno ad Aquileia, poi faremo altri test in Veneto, in Olanda con l’Università di Leida e sulle isole Aran in Irlanda con l’Università di Glasgow, zone che hanno strutture archeologiche diverse dalle nostre. Mi piace pensare che i nostri studi pionieristici saranno impiegati in futuro per il controllo del territorio e per preservare i paesaggi culturali. Queste tecnologie ci permettono di salvare in modo preventivo quello che non abbiamo ancora scoperto».

Fonte: www.corriere.it, 6 apr 2021

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