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Umberto ALLEMANDI: Paesaggio – adesso tocca alle Regioni.

A ben guardare dovremmo essere in una botte di ferro per quanto riguarda la tutela del paesaggio. Oltre il 50% del territorio nazionale è coperto da dispositivi di vincolo. Con punte che in Liguria, Trentino e Val d’Aosta superano il 90% e dei flessi di minima intorno al 20%, come in Puglia. Non mi pare che in altri paesi si faccia e si sia fatto altrettanto.

Anche sul piano dei principi della tutela, il sistema di leggi del 1939 ha messo il Paese all’altezza dei compiti che gli si paravano di fronte.

Quanto al controllo del territorio, disponiamo di un sistema capillare di presidi rappresentato dalle Soprintendenze che altri paesi stanno pensando d’imitare. E anche se le Soprintendenze non sono tante quante vorremmo che fossero e col personale di cui vorremmo disporre, non si tratta certo di una struttura di piccole dimensioni. Si parla di 105 uffici (comprese quelle archeologiche e quelle storico-artistiche) che dispongono di circa 18mila persone (con cui si gestiscono anche oltre 400 musei).

Eppure, guardandosi intorno, non si direbbe davvero che il territorio sia ben tutelato, e con territorio intendo ribadire che parlo di paesaggio, perché per il cosiddetto sistema delle Arti il discorso è fortunatamente diverso. C’è un abusivismo diffuso e c’è un alto livello di litigiosità che non depone a favore della tutela. Facendo intendere che il sistema di protezione non sia condiviso e rappresenti una forma di controllo elitario. Non è così. Lo si è già detto da queste stesse colonne. Ma vale la pena di ripeterlo. Il problema della tutela del territorio diventa particolarmente acuto nel 1976 quando la materia viene completamente delegata alle Regioni. Con una disposizione improvvisa, perentoria. Senza lasciare nemmeno il tempo di fare le consegne. Solo nel 1985 le Soprintendenze furono rimesse in gioco. Per mettere un riparo a una situazione di grave perdita di controllo del territorio. In realtà, furono chiamate a impegnarsi molto per poca cosa. Devono guardare i progetti solo per dire se quel che si vuol realizzare è congruente o meno con gli strumenti urbanistici. Appena mettono fuori la testa per dire che qualcosa non va sotto il profilo del merito, e cioè se quel che si vuol fare sia bello o brutto, vengono sommerse di ricorsi e ricacciate indietro. A spulciare regolamenti, a controllare gli aspetti formali. Quel che si riesce a fare è una sorta di moral suasion e poco più. Che vale quel che vale e che spesso fa gridare allo scandalo perché non si riesce a fare di meglio.

Si tratta di cose note. Come è noto che i dispositivi che presiedono a questo tipo di tutela sono formulati in maniera assolutamente inadeguata, rispetto a quel che sarebbe necessario. I vincoli di bellezze naturali, come vengono chiamati in omaggio alla legge del 1939 n. 1497, hanno un impianto di dichiarazione generico. Si tratta di solito di una descrizione dei luoghi più o meno attenta, accompagnata da qualche notizia storica e da una perimetrazione dell’area. Non si dice quel che si può e non si può fare. Ci si esprime sui singoli interventi. Non sull’impianto generale dell’area tutelata. Quel che viene sottoposto alla verifica è il caso singolo.

Anche il sistema di perimetrazione dei cosiddetti vincoli automatici, che si attivano per effetto della legge del 1985, non è più adeguato. Basta guardare la carta dei vincoli per capire che con questo sistema si può reggere solo per porre un freno a una situazione di emergenza, com’era quella che s’era manifestata a metà degli anni ’80. A regime i nodi vanno sciolti. Alle affermazioni apodittiche va sostituito un giudizio critico sui criteri, sui modi e sui metodi d’applicazione della tutela.

Il nuovo Codice dei Beni culturali introduce novità importanti. Prevede che si redigano piani paesistici regionali, secondo un articolato sistema di procedure e di verifiche che dovrebbero consentire di passare dall’esame del caso per caso, a una valutazione complessiva della materia della tutela paesaggistica regionale. Con delle dichiarazioni di principio parecchio interessanti, come il fatto di aver stabilito che il “patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici”. Che significa operare con un’unitarietà di intenti e di modi che prima non era dato di prevedere. Col Codice, il Piano Paesistico diventa uno strumento di controllo del territorio sovraordinato rispetto agli altri strumenti urbanistici, per una gestione unica e condivisa delle trasformazioni territoriali.

Non si tratta di una novità assoluta. Ma è il portato di un impianto disciplinare consolidato, che aveva già avuto modo di sottolineare “[…] la necessità di un tempestivo, oculato lavoro di previsione e notifica, con la redazione nelle regioni di alta importanza di un vero e proprio piano regolatore paesistico, che disciplini la conservazione o la mutazione e, valutando e bilanciando le opposte esigenze, stabilisca una zonizzazione e un regolamento edilizio schematico in modo analogo a quello che si fa nei piani regolatori delle città: saprà in tal modo ciascun proprietario quale è la potenzialità fabbricativa del proprio terreno e potranno su quella basare i loro calcoli gli eventuali acquirenti; difficili e rare saranno le frodi; un criterio organico investirà tutta la regione, sostituto al carattere ineguale arbitrario, aleatorio del caso per caso”. Sono parole che Gustavo Giovannoni pronuncia nel lontanissimo 1938. Non ebbe la fortuna che si sarebbe meritato. Sosteneva allora esattamente quel che oggi vogliamo dire noi. Anticipava di quasi settant’anni quel che oggi è diventato legge. Con intuizioni lucidissime anche sul piano dell’abusivismo che, come ben si sa, trova fondamento sull’incertezza delle regole. Se i piani paesistici non verranno redatti (la legge purtroppo non lo impone) rimarrà la situazione che c’è (art. 159). Con le procedure previste dalla legge del 1985. Con le polemiche, le rincorse, i ricorsi e una mancanza diffusa di tutela reale. Un perenne regime transitorio.

Fonte: Il Giornale dell’Arte on line 01/05/05
Autore: Umberto Allemandi

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