Archivi

TORINO – DOV’ERA L’ANFITEATRO? Un’ipotesi

La scoperta relativamente recente (XIX secolo), nei pressi del duomo, dei resti del teatro romano di Torino non ha stimolato adeguatamente più approfondite ricerche per individuare anche l’esatto sito in cui si trovava l’anfiteatro, anch’esso certamente presente, come nelle altre città romane di una certa importanza in Piemonte.

Nel secondo secolo, in cui la città di Torino ebbe una grande fioritura, l’anfiteatro era certamente già presente ed in esso si svolgevano ordinariamente i giochi pubblici, tra i quali i “gladiatorii”. Gli ultimi di questi spettacoli ebbero luogo probabilmente sul finire del quarto secolo ed agli inizi del quinto, allorchè il vescovo di Torino San Massimo ne vietò la prosecuzione, in armonia con quanto disposto da Paolo Onorio, nel 403 o 404.

Da allora, o poco dopo, ha inizio l’oblio per il grande e caratteristico edificio, trasformato, come molti altri, in una cava di materiale da costruzione.

Il mancato stimolo, in epoca a noi più vicina – ed anche nell’attuale – a ricercarne l’ubicazione ed i resti è in realtà motivato da una duplice convinzione – che si ha modo di ritenere erronea – per la quale il sito dell’anfiteatro sarebbe a grandi linee conosciuto, ma l’edificio risulterebbe interamente demolito. L’ubicazione, secondo tale ipotesi, è in prossimità della antica porta detta “Marmorea”, che si apriva sull’asse dell’attuale via Santa Teresa, nel punto ove, in linea pressocchè retta, giungeva la via proveniente da Porta Palatina. L’anfiteatro, stando alle antiche stampe, si troverebbe presso piazza San Carlo. Poiché di esso, nel luogo così indicato, non si è mai trovato nulla, è necessario chiedersi su cosa si basasse la suddetta convinzione, analizzandone le fonti. La “Storia di Torino antica” del Rondolino (Torino, 1930) è una preziosa raccolta di dati, notizie e disegni. Da essa si apprende che il Maccaneo, nel 1508, segnalava le bellissime forme dell’anfiteatro di Torino, mentre il Panciroli, docente in legge a Torino tra il 1570 e il 1582, scriveva: “Fuor di Torino, nella strada verso Pinarolo, si vedono i vestigii di un Anfiteatro, se bene non di quella perfettione dell’anfiteatro di Verona”. Anche Filiberto Pingone, nel 1577, colloca l’anfiteatro presso la porta Marmorea (probabilmente così chiamata poiché ornata di marmi e ceramiche, apposti – quasi una forma di pubblicità – dai numerosi artigiani operanti nel quartiere cui la porta dava immediatamente accesso, zona detta, fin dal medioevo, “Faubourg des marbres”). Il Rondolino afferma: “Vuolsi credere che dell’area circolare dell’anfiteatro rimanesse allora solamente lo stagno circondato da monticelli e dal Pingone ricordato, poiché il sobborgo circostante fu atterrato dai Francesi nel 1536 …; è perciò fantastica la ricostruzione che ne venne fatta in un disegno a penna della fine del secolo XVI, che lo pose all’angolo sud-ovest delle mura ed a ponente della Cittadella”.

I monticelli (“monteruchii”), fuori della Porta Marmorea, presso la strada di San Salvario, sono segnalati in un documento torinese del 1149 ed in alcuni “Ordinati Comunali” dei secoli XVI e XV. Più tardi, nel 1819, Modesto Paroletti allega alla sua opera “Turin et ses curiositès”, la pianta della città (disegnata dall’arch. Bagetti) come pensava fosse in tarda epoca romana e nel medioevo e disegna un anfiteatro perfettamente circolare situato nella zona tra le attuali piazza San Carlo e Via XX Settembre. Poiché all’epoca del Paroletti era scomparsa qualsiasi traccia di edificio romano in quella zona – urbanizzata ed inclusa nella nuova cinta muraria fin dalla prima metà del XVII secolo – si deve pensare che l’autore non abbia fatto altro che attenersi alle osservazioni del Maccaneo e del Panciroli, senza nulla aggiungere. Da notare, oltretutto, che se l’anfiteatro era ridotto, nel 1149, a semplici monticelli contornanti un laghetto, come poteva, molti decenni dopo, apparire quasi integro … “ sebbene non di quella perfettione dell’anfiteatro di Verona?”.

Nella realtà – e con ogni probabilità – le cose stanno diversamente: quel laghetto circondato da monticelli, appena fuori la città, sulla strada di Pinerolo (attualmente la zona di Piazza San Carlo) è diventato un anfiteatro solo ad opera della fantasia dei posteri che avevano perduto la memoria dell’anfiteatro vero, fino ad essere addirittura ricostruito come tale – ma soltanto nella fantasia – da scrittori non privi di spirito affabulatorio, assai diffuso nella loro epoca. E’ inoltre da tenersi nel debito conto che chiunque non ami le ricerche vere (o non abbia interesse a farle, o gliene manchi lo stimolo) tende a tramandare notizie anche false – ma che qualcuno ha diffuso come vere, appoggiandosi ad una presunta autorità in materia – fino ad ottenere, con la reiterata ripetizione scritta, una parvenza di verità che smorza lo spirito di ricerca. Quando poi, tra le due guerre mondiali, eseguendo gli scavi per la metropolitana (non realizzata e trasformata in parcheggio sotterraneo), venne alla luce una condotta d’acqua d’epoca romana, l’interpretazione fu univoca: si trattava del cavo di adduzione dell’acqua all’anfiteatro romano (gli anfiteatri, si sa, necessitavano di acqua, sia per le naumachie, sia per la pulizia della cavea). Con ciò rimaneva in ogni caso coonestata l’idea che l’anfiteatro di Torino, di forma perfettamente – ed inusitatamente – circolare, si trovasse al di fuori della Porta Marmorea.

Con queste brevi note – note che non pretendono di essere altro che la formulazione di un’ipotesi da verificare – si vuole mettere in dubbio che quel laghetto circondato da un muro circolare (muro crollato e ridotto a collinette di macerie ricoperte di sterpaglia) fosse ciò che rimaneva dell’anfiteatro. Un’ipotesi intorno a cosa fosse verrà formulata più oltre: il laghetto, infatti, testimoniato da più fonti, certamente esisteva.

L’anfiteatro, invece, si trovava in altra e più logica posizione ed è ancora oggi intuibile in buona parte del suo perimetro – circa la metà – mentre l’altra metà, demolita per prima ed in epoca più recente ricoperta da interramenti artificiali, non è più intuibile, se non attraverso eventuali scavi.

La zona è quella di Borgo Dora: la via Borgo Dora, con il suo andamento descrivente la metà di una ellisse, lascia intuire la forma dell’antico anfiteatro, situandosi probabilmente sull’area di quelle che furono, in proiezione piana, le scalinate per gli spettatori, mentre le case lungo il lato interno sorgono sull’area di quella che fu la cavea.

Molti elementi rendono tale ipotesi degna di considerazione: in primis si deve rilevare come a Torino – similmente a Verona e ad altre città romane – l’anfiteatro sarebbe poco al di fuori delle mura, ma, similmente ad Aosta, non lontano dal teatro. Si deve poi rilevare un’evidenza planimetrica del terreno chiaramente indicante un antico intervento artificiale: se si completa l’ellisse, ci si accorge che essa giace su di una porzione di terreno un poco più ampia dell’ellisse stessa e perfettamente pianeggiante, quasi un’ “isola” di forma tondeggiante, collegata in salita soltanto lungo un terrapieno stradale in direzione delle mura cittadine.

Tale “isola” risale all’epoca romana ed è stata artificialmente costruita proprio per poter edificare l’anfiteatro poco al di fuori delle mura (il che comportava anche una sicurezza in più a favore dell’ordine pubblico, poiché negli anfiteatri, come negli attuali stadi calcistici, si svolgevano anche spettacoli largamente popolari, in grado di scatenare il “tifo”), ma presso il teatro, i templi e le terme, ponendolo altresì, con il rialzo artificiale del terreno, al riparo dalle piene della Dora, in quel punto soggetta a straripamenti.

La sopraelevazione del terreno con formazione di un’isola (o meglio penisola, poiché collegata alla città con un terrapieno stradale) è tuttora visibile: la via Borgo Dora nella sua parte curva ed il piccolo spiazzo verso la Dora in cui la parte curva termina si situano – in contrasto con l’uniforme discesa delle mura verso il fiume – si di un terreno perfettamente pianeggiante; subito dopo vi è una breve e forte discesa a la Via Borgo Dora si fa dritta. A tale salto di livello, ma senza superarlo, è giunta anche la piena della Dora nell’anno 2000. Verso il Corso Giulio Cesare, che è situato sulla sommità di un riempimento artificiale che ha annullato, in epoca moderna, la discesa e la risalita nell’alveo della Dora, la discesa dall’ “isola” non appare più visibile, ma ve ne è ugualmente traccia: risalendo la Via Andreis in direzione di Corso Giulio Cesare, poco prima dell’area della vecchia stazione della ferrovia per Ceres, sulla sinistra si può osservare, in area privata, una forte discesa verso locali attualmente sotterranei, ma che, anteriormente alla costruzione del terrapieno di Corso Giulio Cesare, si trovavano sul piano di campagna, più basso di quello dell’ “isola”. Anche il cortile interno dell’edificio ospitante il ristorante “San Giors”, nonostante già si situi verso la città, mostra una discesa dall’ “isola” ed è più in basso di questa. Soltanto il terrapieno di collegamento alla città, situato all’incirca sul percorso della attuale via Mameli (o poco discosto da essa), non presenta discese dall’isola, poiché costituiva il collegamento tra questa e la città. Neppure la via Andreis, nel tratto tra via Borgo Dora e via San Pietro in Vincoli, presenta discese, ché anzi, in quel senso, presenta forse una lievissima salita.

La cosa è comprensibile: se si pensa all’assetto della città romana, alla situazione di quell’ “isola” e del terrapieno che la collegava alla città, al senso della corrente del fiume, si può capire come fin dalle prime esondazioni dopo la costruzione dell’isola e del terrapieno, il materiale trasportato dalla corrente si accumulasse sul lato a monte, tendendo a collegarlo e collimarlo con il terreno più alto. Di ciò rimane traccia nella variazione del percorso del canale derivato dalla Dora, come documentato dalle carte più antiche. Il canale è con ogni probabilità assai più risalente di quanto si creda ed è forse stato tracciato per la prima volta proprio in epoca romana, segnatamente per servire l’anfiteatro: esso era tenuto lievemente più in alto di questo, passava – e passa – tra la città e l’isola e, giunto all’altezza dell’anfiteatro, staccava perpendicolarmente un canaletto, che veniva scaricato nella Dora, passando sul terrapieno collegante l’isola alla città e percorrendo ad idonea profondità l’asse maggiore dell’anfiteatro, per le utilità legate ad esso. Ancor oggi il suo percorso taglia esattamente a metà la descritta ellisse, lungo il suo asse maggiore. Prima di giungere all’altezza dell’anfiteatro, il canale derivato dalla Dora si avvicinava ad esso con un’ampia curva, convessa rispetto alle mura cittadine, curva poi scomparsa e sostituita da un percorso quasi rettilineo: quella curva rappresentava forse il luogo ove precedentemente, poco oltre il lato sinistro del canale, era individuabile la lieve scarpata verso la Dora, prima che gli ulteriori interramenti (e forse anche materiali di discarica) portassero ancor più vicino al fiume, rendendola più ripida, la scarpata stessa, fino a permettere anche un certo drizzagno del canale.

La via Borgo Dora, nella sua parte curvilinea, disegna soltanto la metà di un ellisse, l’altra metà – quella verso Corso Giulio Cesare – non è rilevabile in superficie. Ciò risale probabilmente ad epoca molto precedente la costruzione del corso ed è il risultato della demolizione dell’anfiteatro, operazione comportante – per ragioni di statica – l’attacco dapprima della parte più alta della cornice esterna e poi la penetrazione progressiva dallo stesso punto ed ampliando la demolizione fino al terreno e nelle strutture più interne. Un inizio di demolizione di questo tipo è rilevabile anche nel Colosseo e nell’Arena di Verona. Allorchè la demolizione è quasi totale, soltanto una metà della struttura, appena affiorante in superficie è ancora rilevabile.

Cosa rimane attualmente di quell’anfiteatro, oltre alla curva di Via Borgo Dora? Alcune significative tracce, sebbene non del tutto probanti, sono ancora presenti: altre, ancor più significative potrebbero risultare da idonee ricerche. Sul piccolo largo prima della discesa di Via Borgo Dora, nell’angolo verso Corso Giulio Cesare della Via Andreis, vi è un edificio relativamente nuovo, risalente al dopoguerra, le cui fondamenta giacciono in un terreno dal quale sono stati estratti blocchi di pietra scura molto grandi, simili a quelli dei quali è costituito il teatro romano. Essi, dapprima ammonticchiati alla rinfusa, sono stati poi sistemati a formare una specie di banchina davanti al marciapiede, nella quale sono ancora visibili.

Nei locali sotterranei di due esercizi commerciali e artigianali di Via Borgo Dora sono presenti un grande muro costituito da pietre fluviali legate da malta, similmente al riempimento interno delle mura romane; vi è inoltre un manufatto di pietra, simile ad una grande mensola e vi è un balcone aggettante, ad altezza d’uomo … in una cantina, il che prova che il piano del terreno, nell’area circoscritta all’interno dell’ellisse – la cavea – era molto più in basso ed era libero da costruzioni. Un impresario incaricato di posare una tubazione nella parte curvilinea di Via Borgo Dora, ha trovato nel sottosuolo numerosi muri curvilinei: erano le strutture di sostegno delle gradinate e di separazione dei corridoi?

Vi è poi il nome della zona, che può essere molto significativo: “Balon”. E’ innanzitutto da togliere di mezzo la leggenda secondo la quale la zona ha preso il nome dal volo di una mongolfiera: prima che la mongolfiera fosse inventata, la zona già si chiamava – come si apprende dal disegno di un anonimo cartografo militare francese del 1706 – “Faubourg du Balon”.

Il termine “pallone” può forse indicare una evidenza assolutamente rimarchevole caratterizzante la zona, qualcosa di tondeggiante che saltava agli occhi di tutti. Il termine anfiteatro è greco ed aulico e non è stato certamente di uso popolare: forse “balon” indicava proprio l’anfiteatro.

Anche a Verona, città di lingua lombarda, e dunque gallo romanza come il piemontese (la lingua veneta – unico dialetto italiano dell’Italia del nord – si è espansa in terraferma a spese delle lingue galloromanze partendo dal Senato di Venezia; a Verona si è radicata da non più di centocinquantanni) una antica via che conduce all’arena si chiama via Pallone (Balon).

Lo storico veronese Lenati ritiene che il nome derivi dalla presenza di un vecchio sferisterio, ma è del tutto probabile che lo sferisterio veronese sia per la Via Pallone ciò che la mongolfiera è per il Balon di Torino.

Più seria potrebbe essere l’ipotesi di un collegamento con il termine Vallone, indicante un punto d’approdo e di transito fluviale: sia la Dora a Torino, sia l’Adige a Verona potrebbero giustificare una simile ipotesi; ad essa conferirebbe qualche pregio anche il nome della Via Conca del Naviglio a Milano, l’antica Via Vallone, nonché il toponimo Le Balone, che indica una zona archeologica del Polesine, ove passava una via navigabile. A Torino, tuttavia, vi è anche un antrotoponimo che può indicare l’anfiteatro e coonestare il collegamento di Balon con il più semplice dei suoi significati: la Porta Palatina – il cui nome ufficiale è più recente – è ancora chiamata popolarmente con il nome più antico: Porta Pila. La “pila”, in latino, può essere il mortaio, una pietra a forma di basso cilindro, scavata all’interno, fino a conferirle una forma che ricorda quella di un piccolo anfiteatro: “pallone” e “pila” possono essere i nomi popolari indicanti tale costruzione.

Se l’anfiteatro è situabile in via Borgo Dora, che cos’era quel laghetto circolare attorniato da “monteruchii” che si incontrava fuori della Porta Marmorea, sulla strada per Pinerolo? L’osservazione delle caratteristiche del terreno può suggerire la soluzione: tra il Sangone e la Dora non vi sono altri fiumi che drenino con il loro corso le acque di falda alimentate dai monti occidentali ed un tempo tendenti ad affiorare sulla linea dei fontanili, vicinissima a Torino. La Porta Marmorea, quindi, dovette aprirsi su di un terreno assai umido, forse paludoso, ricco di piccole sorgenti e risulte d’acqua. Per consolidare la zona e renderla percorribile senza intralci lungo la strada uscente dalla Porta, è probabile che i Romani abbiano scavato un bacino di drenaggio e raccolta che consolidasse il terreno, un piccolo lago rotondo che abbassasse un poco il livello delle acque di falda, conducendole poi, secondo la pendenza del terreno, verso Torino. Poiché tali acque erano di ottima qualità alimentare, è probabile che il laghetto fosse circondato da un muro per impedire al bestiame di entrare ed inquinarlo, mentre le persone potevano accedere da numerose porte per attingere l’acqua, forse scendendo pochi gradini circondanti lo specchio: è innegabile una certa similitudine con un anfiteatro.

Caduto in rovina ed intasatici i canali di adduzione e di scarico, rimase visibile il laghetto, circondato dalle rovine del muro, ridotto a collinette coperte da rovi.

Nel corso dei secoli, quella falda di ottima acqua andò abbassandosi. E’ tuttavia interessante notare che Francesco Panciotto e Mastro Stefano Somasso da Lugano, allorchè ebbero l’incarico di abbellire la parte esterna della cisterna della Cittadella di Torino, cisterna che permetteva di raggiungere con una doppia rampa elicoidale quella stessa falda d’acqua ormai abbassatasi, edificarono qualcosa di assai simile ad un anfiteatro. Quanto hanno giocato tali somiglianze nel far perdere la memoria dell’anfiteatro vero?

Deve inoltre osservarsi un altro sorprendente particolare: non si conosce con certezza quale nome abbiano dato i Romani alle quattro porte della città, o meglio: non si conosce con certezza a quale porta debba essere attribuito ogni singolo nome: la Porta Marmorea si chiamava probabilmente Principalis Dextera; quella attualmente inglobata in Palazzo Madama si chiamava forse Decumana o Praetoria; la Principalis Sinistra era dunque la Porta Palatina? Se così fosse, è possibile notare che, ruotando di centottanta gradi la pianta della città romana, il laghetto considerato anfiteatro, poco fuori della Porta Marmorea, si scambia il posto con l’ipotizzato anfiteatro al Balon poco fuori di Porta Palatina. Poiché gli antichi – in assenza di criteri generalizzati ed univoci – non erano campioni nell’orientamento delle carte geografiche che andavano disegnando, quanto ha giocato questo particolare, fin da molti secoli addietro, nel creare confusione e far dimenticare il vero anfiteatro? E’ possibile coonestare la descritta ipotesi compiendo qualche scavo al Balon, oppure nello stesso modo escluderla, ma chiarendo che cosa fossero le indicate tracce? Anfiteatro, porto fluviale, tutt’e due le cose? Certamente se la via verso Milano, uscente da Porta Palatina e dirigendosi ad est (la Abbadia di Stura era una mansio), si è spostata fino a formare il primitivo asse di Corso Vercelli, poi superato da Corso Giulio Cesare, lo spostamento dev’essere avvenuto in ragione di qualcosa di molto attrattivo, che deve avere indotto a passare in quel punto la Dora, anche provenendo dalle campagne, come avveniva, per es., in occasione di spettacoli circensi.
Fonte: Redazione Europa Reale n. 3 – Anno 2, n. 1 – gennaio 2001
Autore: Giampaolo Sabbatini
Cronologia: Arch. Romana

Segnala la tua notizia