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PANTELLERIA – OGIGIA. L’ALTRO VOLTO DI PANTELLERIA

Lo studioso Angelo Cardinale nel 1° volume della sua opera “Lo specchio e l’immaginario”(Ferraro editori Napoli 1993), antologia della letteratura greca dell’età arcaica ad uso dei licei classici, riporta, nel commentare il quinto canto dell’Odissea, quello per intenderci dedicato a Kalipso, una nota di M.Gall, nella quale si elencano le isole con cui gli studiosi moderni identificano la misteriosa Ogigia. E qui oltre al Bradford che vuole che sia Malta, e al solito Bérard che la colloca nello stretto di Gibilterra, troviamo la tesi del Butler, che la identifica con Pantelleria. Per noi che abbiamo studiato su altri libri di testo la pubblicizzazione di quest’ultima tesi è una piacevole e gradita sorpresa.

Se si pensa che Omero o chi per esso, tralasciamo qui di impelagarci nell’annosa “querelle” della questione omerica, costruisce i suoi poemi sulla base di una lunga tradizione orale, per cui, nell’Odissea, confluiscono i “meravigliosi” racconti dei viaggi dei marinai greco-micenei, che nei secoli precedenti hanno navigato nel “tenebroso” mare occidentale esplorando le sue coste, soprattutto quelle italiche, si comprende benissimo la difficoltà di identificare con certezza i siti menzionati nei canti omerici. Anche perchè il tutto è stato poi trasfigurato nelle nebbie del mito, di cui il popolo greco fu insuperabile creatore. Comunque, spesso, è lo stesso nome omerico a racchiudere, a mo’ di scrigno, la chiave per aiutarci a trovare il bandolo della matassa nell’identificazione, che però, precisiamo, resta pur sempre nel campo delle ipotesi, anche se probabili, trattandosi di prove non strettamente archeologiche.

Prendiamo il nome Penelope con cui Omero designa la moglie di Ulisse. Penelope è l’archetipo femminile della sacra fedeltà coniugale, e con tale significato simbolico è impresso da sempre nel nostro immaginario collettivo. Il nome deriva da una radice, che ritroviamo uguale anche nel termine con cui gli antichi Greci indicavano un uccello marino, la latina querquedula. A prima vista l’accostamento sembra insensato, ma se si sa che quell’uccello marino è di una straordinaria fedeltà coniugale, si comincia ad entrare nell’ottica con cui gli antichi coniavano i nomi di persona e delle località. E quale altro nome poteva inventare la fantasia di un popolo di navigatori, come quello greco, per la moglie dell’eroe protagonista del poema marinaro per eccellenza, l’Odissea, se non quello derivante da un uccello marino, famoso per la sua fedeltà coniugale? Piaceva agli avventurosi marinai greci immaginare, nelle lunghe veglie sul mare, le loro mogli lontane in fedele e trepida attesa del loro ritorno. Fedeli soprattutto come quell’uccello marino, che vedevano tuffare intorno alle “concave” navi.

Ma torniamo all’isola di Ogigia, già gli storici dell’antichità non sapevano più dove essa fosse situata. Quelli moderni concordano nel fatto che l’isola di Kalipso sia da ricercarsi nei mari dell’Italia Meridionale, essendo definitivamente tramontata la vecchia tesi del Bérard, che la poneva nel lontano stretto di Gibilterra, cioè alle Colonne d’Ercole, che rappresentavano il limite del mondo allora conosciuto. E veniamo all’identificazione. Sono da escludere subito le isole del golfo di Napoli, le Tremiti, le Eolie. Le prime perchè vicinissime alla terra, le altre due in quanto veri e propri arcipelaghi. Da escludere anche la solitaria Ustica, perchè troppo al di fuori, per quello che sappiamo attualmente, delle rotte antiche. Per la vicinanza alla terraferma e perchè anch’esse arcipelago sono infine da escludere le Egadi. Non restano dunque che le isole di Malta, Lampedusa e Pantelleria. Isole che, dalle ultime conoscenze archeologiche, sappiamo lambite dalla marineria greco-micenea e forse dalla più antica marineria cretese.

Omero, per Ogigia è categorico: si tratta di un’isola che non è altre nelle vicinanze. A questo punto resta la sola Pantelleria. Già altri studiosi, locali e non ( il citato Butler, per esempio), sono arrivati alla stessa logica conclusione. Necessaria precisazione per evitare la spiacevole querelle del solito cultore di storia patria che eventualmente ritiene di poter vantare diritti di primogenitura. Comunque quello che ne ha trattato più diffusamente e appassionatamente è, come sempre, lo storico pantesco D’Aietti. A noi interessa qui portare nuove prove a sostegno della possibile identificazione di Ogigia con Pantelleria.

Ogigia, l’isola meravigliosa del Mediterraneo occidentale, è per Omero “l’ombelico del mare”, quindi il centro per antonomasia. Su questo insiste il D’Aietti, ribadendo la perfetta centralità geografica dell’isola di Pantelleria nell’intero bacino del mare Mediterraneo. Basta prendere una cartina geografica per averne conferma. Ma Omero non intendeva dire questo, o meglio non solo questo. Per alcuni versi omerici è necessario procedere con un altro e più sottile livello di lettura, quello esoterico. Come abbiamo già scritto, l’Odissea, poema inizialmente orale, è costruito di fatto sui racconti e le leggende tramandati dai marinai greci nella loro epocale corsa verso il mare occidentale.

Molti di questi marinai hanno conosciuto, quali iniziati, le sacre misteriosofie della Grande Dea Madre o Dea della Fertilità, di cui erano imbevute non poche isole mediterranee di quel tempo. Fatalmente parte di queste misteriosofie si stratifica nei versi dei cantori greci. Quindi quando Omero dice “ombelico del mare”, intende dire che siamo in presenza di un “omphalos”, cioè un centro sacro, un’isola sacra sede di una divinità, nel nostro caso rispondente al misterioso nome di Kalipso, ipostasi, nemmeno troppo velata, della preistorica Dea dell’Amore. Della persistenza in Pantelleria, per tutto il periodo più antico, di una misteriosofia imperniata su quest’ultima divinità abbiamo già trattato diffusamente in altri scritti. La identificazione di Ogigia con Pantelleria quindi non è che un’ulteriore conferma.

È in età neolitica che si riscontrano, attraverso inconfutabili testimonianze archeologiche, le prime tracce di frequentazione per l’isola di Pantelleria. La località interessata è quella di contrada Mursia-Cimillìa. Qui, all’alba della civiltà, sbarca il misterioso popolo dei Sesi, costruendo sull’altura di Cimillìa un poderoso villaggio fortificato ed utilizzando la sottostante cala quale ancoraggio per le proprie rudimentali imbarcazioni. Essi commerciano l’oro nero dell’antichità, l’ossidiana, di cui l’isola è ricca. Solo altre rare località, nell’intero bacino del Mediterraneo, godono di questa peculiarità. Ma non deve essere stata la sola molla del commercio a spingere quelle genti. Come sempre, per i popoli antichi, agiscono anche motivi magico-religiosi.

Non deve essere un caso che il villaggio fortificato sorga nelle immediate vicinanze delle collinette di Mursia dal caratteristico colore rossastro. Ancora oggi esse sono intese con il nome di Cuddie Rosse. In un arcaica lingua sacrale mediterranea pre-indoeuropea con il termine GUG si indica il nome di una pietra rossastra. Terra sacra quindi per gli antichi perchè bagnata dal sangue della grande dea madre. Nella stessa lingua sacra con il termine GI-GUN si indica poi il tempio, il sancta sanctorum, cioè il luogo abitato dalla divinità.

Gi-gun = Ogigia = centro sacro o omphalos perchè sede prescelta dalla Dea Madre e di conseguenza della Fertilità. Stupefacente l’analogia che presenta l’etimologia del nome Ogigia con tutti gli altri nomi avuti dall’isola nel corso dei secoli (cfr. al riguardo i precedenti articoli apparsi sul Panteco).

Resta nel campo delle mere ipotesi il fatto che il popolo dei Sesi, nel prosieguo del commercio del’ossidiana, abbia potuto stabilire contatti con i navigatori cretesi, che giungono regolarmente in Sicilia. D’altronde gli arcaici abitanti di Pantelleria devono essere in possesso di una non troppo rudimentale tecnica di navigazione, come sembrano adombrare alcuni manufatti neolitici, rinvenuti dall’Orsi, che potrebbero rivelarsi ancore votive. Annotiamo, per inciso, l’esistenza di una leggenda dei Creto-egei che parla della razza degli dei e semidei, che abitano una terra dell’Occidente.

Gran parte dei toponimi di Pantelleria deriva da voci arabe, con l’eccezione proprio della fascia di costa di più antica frequentazione, che presenta dei toponimi di chiara origine greca. Potrebbe trattarsi di reminiscenze bizantine, come lo stesso nome Pantelleria, ma anche di qualcosa più antico. La località Scauri, l’altro porto di Pantelleria, è parola greca che sta appunto per scalo, porto. Un’antichissima leggenda vuole che gli abitanti del posto, gli Scavirioti, siano i più astuti dell’isola per via della vantata diretta discendenza da Ulisse. Altro toponimo è Cimillìa, da Kimelio = tesoro, nascosto, dove si trovano le misteriose tombe dei preistorici Sesi. Infine Satarìa , da soter = salvezza, salute, a causa delle benefiche e salutifere acque termali che vi si trovano.

Proprio l’ampia grotta di Satarìa con le sue calde acque termali si suole, per tradizione, indicare quale splendida dimora della dea Kalipso, signora dell’omerica isola dell’amore, Ogigia. Le acque termali di questa grotta, fin dall’antichità, sono famose per le ottime qualità terapeutiche nel campo ginecologico, soprattutto nel combattere la sterilità. Da qui, per gli antichi, immaginare che ciò sia il dono munifico di una benevole dea della fecondità, nascosta nelle acque, il passo è breve. Appunto Kalipso, ipostasi, come abbiamo già accennato, della preistorica Dea dell’Amore. D’altronde l’esistenza di riti della fecondità è attestata, per l’isola, anche da altre testimonianze. Il nome Kalipso ha alla base la radice Kel nel suo significato di velare, nascondere, quindi Kalipso = l’occulta, la nascosta (nelle acque). Ha la stessa radice di Kimelio = Cimillìa (tesoro o bene nascosto), località sacrale dove i neolitici dei Sesi, in enigmatiche tombe-templi, apprendevano forse il definitivo segreto iniziatico “dell’eterno ritorno”.

Della benefica dea e delle sue ancelle datrici d’amore, porta nel cuore lo struggente ricordo qualche oscuro marinaio greco-miceneo, che ha solcato, all’alba della civiltà il “tenebroso” mare occidentale. Le sue parole vengono poi raccolte e trasfigurate nei versi di un cantore cieco, che percorre le strade assolate della Grecia arcaica.

Tremila anni sono passati e quelle parole ci fanno ancora sognare.
Fonte: Redazione
Autore: Orazio Ferrara
Cronologia: Protostoria

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