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Gianpaolo SABBATINI: L’antico lago di Alpignano.

Una leggenda veritiera, rivisitata descrittivamente ed attualizzata in senso faceto.

Tutto è cominciato con la vittoria dei Romani. I Romani erano maestri nel prosciugare laghi: forse perché i loro, quelli laziali, non erano granché leggiadri: rotondi, sponde piatte o al massimo collinose, se non c’era qualche opera d’arte ad abbellirli (ed a quei tempo molte delle località poi onuste di storia e di arte non c’erano ancora) erano proprio bruttini. Era meglio trasformarli in terreno ben riquadrato e coltivabile. Uno dopo l’altro sparirono il lago di Rieti (Velino), il lago marsicano (Fùcino, che poi si prese una rivincita comparendo ancora, in tarda età romana, malaticcio e paludoso, e tale rimase fino alle moderne bonifiche), nonché altre zone umide o lacustri minori, delle quali si ha poca o nessuna notizia.

La stessa logica i Romani la applicarono anche dove non avrebbero dovuto: il Piemonte (allora Gallia Cisalpina). Il Piemonte, infatti, possedeva i due laghi prealpini più belli che la natura avesse creato, uno dei quali, vicinissimo al luogo ove poi sarebbe sorta Torino, era orientato nel senso dei paralleli: il sole sorgeva e tramontava lungo il suo asse maggiore, creando stupende tonalità di luce, che in parte ancora sembrano voler rivivere in certi crepuscoli dorati e lunghissimi, tipici della città.

Torino non c’era ancora e i Romani, attestandosi all’imbocco delle grandi valli, alla ricerca di zone facilmente presidiabili contro le possibili invasioni di oltralpe, si accorsero che il lago formato dalla Dora Riparia (si estendeva da poco a monte dell’attuale Sant’Ambrogio fino all’anfiteatro collinare di Rivoli e Alpignano) poteva fare la fine del lago Velino ed essere eliminato, lasciando allo scoperto vasti terreni coltivabili, liberi da foreste, allora presenti, insieme con acquitrini, in tutta la valle padana. Una leggenda alpignanese, di cui porta notizia anche la “guida rossa” Touring di Torino e Valle d’Aosta (1), narra che i Romani, abbassando artificialmente il letto della Dora in quel di Alpignano, provocarono lo svuotamento di una conca lacustre che arrivava oltre Avigliana: è il lago di cui, appunto, vado parlando.

Quando c’era non esisteva ancora il partito dei verdi e i (pochi) disastri ecologici, specialmente se in casa dei vinti, potevano essere programmati ed eseguiti senza opposizioni.

Al giorno d’oggi i Torinesi, dimentichi del loro lago, non sanno che cosa hanno perduto (2). Provo a spiegarlo. Innanzitutto bisogna tener presente che un grande lago, prima ancora che acqua, è luce, è clima, è brezza dolcissima e frequente, è anima. L’acqua, poi, rispecchiando il cielo, valorizza ogni anfratto, ogni punta, ogni roccia: il più piccolo e banale dei profili collinari, specialmente se impreziosito da qualche cipresso, due o tre cedri, un querciolo qualsiasi piegato dal vento dominante, diventa estremamente scenografico e si presenta cangiante e diverso a seconda dell’ora del giorno, della distanza, dell’angolo visuale. Le montagne, poi, anche se in secondo piano, appaiono incombenti e protettive, scena e quinte di un teatro possente e familiare, che le mutevoli stagioni dipingono sempre del colore più adatto. L’acqua, la luce, il vento generano un microclima che favorisce la crescita di specie floreali e di piante quasi esotiche, mentre innumerevoli stormi di uccelli rallegrano il cielo e riempiono di canti i giardini.

Il lago di Alpignano ed Avigliana (lo voglio chiamare così, anche se l’attuale lago Grande di Avigliana è soltanto il piccolo residuo del suo golfo sud-occidentale) era tutto questo: quando venne vuotato c’era forse soltanto qualche piccolo nucleo di località abitata sulle sue rive; il paesaggio naturale, però, c’era tutto. Anche più tardi le località abitate si sono schierate grosso modo sulle due sponde, forse timorose di offendere l’anima, che fino all’ottocento riusciva ancora a farsi intuire con vaste zone paludose e terreni inzuppati d’acqua. Tuttora le strade di imbocco della Val di Susa, la statale e la “militare”, toccano i comuni “rivieraschi”, comuni che, se ci fosse ancora il lago, non avrebbero nulla da invidiare alle stazioni climatiche d’acqua dolce più rinomate: da Rosta a Caselette, attraverso l’arco collinare di Rivoli e Alpignano (che si deve immaginare come non ancora sfondato dalle opere romane e pertanto in grado di contenere le acque della Val di Susa fino all’altezza di 350 metri circa sul livello del mare) il paesaggio racchiude la testata orientale del bacino, trattenuta da alture moreniche simili a quelle briantese e gardesane. A nord, il Musinè – coperto da foreste per l’influsso climatico lacustre – protende un piccolo contrafforte roccioso, quasi uno sperone, fin dentro le acque: su di esso sorge Castel Camerletto, suggestivo come le più belle punte turrite che impreziosiscono il Verbano o il Benaco. Di fronte, dall’altra parte del lago, si erge la collina di Rivoli con il castello, poi l’abitato di Rosta, la cui parte più antica è scenograficamente più in alto rispetto al livello delle acque, mentre un borgo lacustre si stende lungo l’arco di un piccolo golfo che termina agli estremi con due isolette: un paesaggio così bello, se non nascesse dalla esatta delimitazione della curva di livello 350, sarebbe persino difficile da inventare.

Continuando lungo la strada della riva settentrionale, dopo la punta di Castel Camerletto, si incontra la località di Milanese e poi Almese, che si stende in parte su una penisola formata dal torrente Messa, come Menaggio sul lago di Como e Locarno sul Lago Maggiore. Vi è poi, quasi contigua, Villar Dora, che ha la sua parte più bella nella frazione di Torre del Colle, assai simile, come positura e morfologia orografica, a Vico Morcote, sul Ceresio. Sull’altra riva, tra Rosta e Buttigliera (il cui piccolo borgo lacustre è dominato da uno spesone sul quale si erge una torre) giace una delle “perle” del lago: Sant’Antonio di Ranverso, proprio sulla sponda (3), punto di incontro fra le passeggiate rivierasche che si dipartono dai due paesi, l’una in direzione dell’altra.

Poco più ad ovest uno dei più straordinari paesaggi d’acqua dolce esistenti al mondo: Avigliana, con il doppio promontorio sormontato dal castello e le tre insenature, il tutto sullo sfondo possente delle Alpi, dietro le quali il sole tramonta, rifrangendo sul lago suggestivi bagliori. Più incombente la Sacra di San Michele, con il profilo fiero e la rupe precipite all’estremo lembo occidentale del bacino: un insieme che sembra dipinto dal Dorè e che al variare delle stagioni e delle condizioni atmosferiche assume colori improbabili in una luce incredibile, che nessuno degli altri grandi bacini prealpini – tutti orientali nel senso dei meridiani – possiede. La si può cogliere anche da Sant’Ambrogio, situato su di una piccola pianura ai piedi del monte Pirchiriano: l’ampia curva convessa, del lungolago, attrezzata a banchina alberata, permette di ammirare panorami diversi, nel corso di un’unica passeggiata di poco più di due chilometri.

Non a torto può dirsi che si tratta del lago prealpino più bello esistente in Italia: tutto questo – dato e non concesso che la descrizione sia stata sufficiente ad evocarne in parte l’armonia – i Piemontesi, segnatamente i Torinesi, l’hanno perduto e nemmeno se ne rammaricano, poiché non lo ricordano. Certamente, però, i Galli sottomessi ed i preindoeuropei della montagna videro con grande dolore, circa duemila anni fa, i nuovi padroni romani – temibili per armi e per tecnica – prosciugare il loro magnifico lago, sebbene ancor privo delle località che più sopra descrivevo, come se ancora esistesse. Forse fu la parte più amara della sconfitta, un grave scempio paesistico ed ecologico: molte specie di uccelli si allontanarono, l’abbondante selvaggina si diradò, il patrimonio ittico fu perduto in massima parte, molte essenze arboree ed altri vegetali non resistettero al nuovo clima più secco e scomparvero. Il monte Musinè, ricco di foreste sacre alle divinità celtiche, umido di nebbie che salivano dal lago al sorgere del sole, perdette il manto verde e si trasformò in un contrafforte da pre-deserto, secco e pieno di vipere. Vicende che i Torinesi hanno ormai dimenticato; soltanto qualcuno, ad Alpignano, narra ancora la “leggenda” dell’abbassamento del letto della Dora.

In realtà il lavoro venne eseguito in tre tempi, con tre tentativi diversi – di cui rimane traccia e l’ultimo dei quali ebbe successo – utilizzando innumerevoli guerrieri indigeni sconfitti. In un primo tempo venne aperta una soglia piuttosto vasta nell’arco collinare, quasi demolendolo, poco ad est dell’odierna Caselette, nel tentativo di far defluire la massa d’acqua verso il Ceronda e la Stura. In quel punto, infatti, le colline apparivano già spianate sulle cime da precedenti vicende glaciali ed il lago quasi sfiorato per tracimazione: tale spianatura venne approfondita. I tecnici romani (molti gli etruschi) si accorsero però ben presto che la base era troppo larga e ad ogni palmo di abbassamento corrispondeva un movimento di terra sempre più insostenibilmente grande. Ripiegarono allora sul letto della Dora – impoverita dall’apertura della nuova soglia – che usciva dal lago con un’ampia curva, poco a nord del percorso attuale, cercando di approfondirlo, ma si ripresentò lo stesso problema. Puntarono allora decisamente sulla apertura di un “drizzagno”, che permetteva contemporaneamente di eliminare quell’ampia curva e di aggredire l’arco collinare nel punto ove la base era più stretta. Ebbero successo. Nacque così l’attuale percorso della Dora, in quel punto quasi rettilineo, lungo la “gola” di Alpignano, in gran parte artificiale. E il lago scomparve.

Attualizzazione faceta

Ebbene, non per postumo e tardivo revanscismo o per spirito di eccessiva autonomia regionale, ma sulla base di calcoli economici rigidi (anche se assai complessi), si può oggi sostenere che il lago perduto può essere ritrovato: i Piemontesi – segnatamente i Torinesi – possono ricostruire uno splendido paesaggio alle porte di Torino e ritrovare l’eccezionale bellezza naturale perduta, attraverso un’operazione economicamente attiva e fonte di grandi attività future.

Il maggiore ostacolo è ovviamente rappresentato dagli insediamenti abitativi ed economici attualmente presenti sul terreno destinato alla sommersione. Essi, tutto sommato, sono scarsi e si possono indicare in alcune espansioni abitative ed industriali di Avigliana, principale fra le quali la frazione Pertusera, le espansioni lungo la statale del Moncenisio dei comuni di Rosta e Buttigliera Alta – principalmente Ferriere – le frazioni Grangia e Drubiaglio, le parti basse di Caselette, Almese, Villardora, alcune cascine e terreni agricoli. Per questi ultimi basti citare il parere ormai unanime degli esperti, secondo i quali un lago è maggiormente produttivo della corrispondente superficie agricola.

Per quanto riguarda gli edifici (da abbattere e spianare per non creare intralci alla navigazione), si può ricorrere ad un sistema di indennizzo straordinariamente efficiente e soddisfacente. In breve, si può procedere così: premesso che i terreni interessati dalla ricostruzione del lago non sono soltanto quelli da sommergere, ma anche quelli che dalla presenza del bacino verrebbero valorizzati, si possono compensare le perdite di terreni con l’aumento di valore di altri, facendo confluire tutto in un’unica entità espropriativa. Gli insediamenti abitativi potrebbero trasferirsi a Rivoli, la cui parte più importante diventerebbe quella interna all’arco collinare, fino ad affacciarsi sull’acqua. Quivi un magnifico lungolago costituirebbe la passeggiata di innumerevoli Piemontesi e forestieri, mentre le attività commerciali ed alberghiere, allontanate dall’attuale statale del Moncenisio e dall’autostrada (tratti da sommergere) troverebbero in esso una nuova sede, assai più efficiente ed attrattiva, quasi una prestigiosa vetrina. La Fiat potrebbe spostare le ferriere (4), ma proprio a Rivoli, a coronamento del lungolago, potrebbe prendersi la rivalsa, con la costruzione di una sede socio-sportiva di élite (non senza aperture popolari), il Fiat-Kursaal-Yachting Club con sale di ritrovo, elioterapia, scuola di vela, adattabilità a meetings, ecc.: anche Azzurra, Luna Rossa e Mascalzone Latino potrebbero farvi la comparsa e dare qualche dimostrazione percorrendo avanti e indietro le numerose miglia del lago, sospinte dai réfoli bolinieri che sempre spirano dalla Val di Susa.

L’attuale viabilità necessiterebbe di qualche modifica; più che di adattamento si può però parlare di miglioramento: le due rive sarebbero percorse dai protendimenti di Corso Francia e Corso Regina Margherita, che racchiudono, fra la città di Torino e il lago, ampie zone verdi, quasi un unico parco, del quale il lago entrerebbe a far parte, costituendone il coronamento. La Dora, bacinizzata e resa navigabile, insieme con un tratto urbano del Po, collegherebbe il lago con la città ed il parco del Valentino, permettendo crociere all’interno di un’area verde attrezzata di straordinaria bellezza e di notevole estensione.

La ferrovia dovrebbe essere spostata sulla riva nord, con molti vantaggi. Con andamento grosso modo parallelo alla ferrovia potrebbe snodarsi anche l’autostrada. Da un ampio parcheggio sito alla periferia ovest di Sant’Ambrogio, un ascensore costruito all’interno della montagna potrebbe portare fino alla Sacra di San Michele, da cui si gode un panorama sull’intero lago. Il turismo indotto dal bacino lacustre – che si situa lungo uno dei principali percorsi di collegamento europei – non mancherebbe di riversarsi anche su Torino (che da sempre soffre di vocazione turistica mancata), con conseguente induzione di innumerevoli attività collaterali e beneficio generale di gran lunga superiore alle spese, nonché superiore alle voci attive stesse immediatamente quantificabili (ricavi alberghieri, energia elettrica, pesca, ecc.).

I lavori da eseguirsi nel bacino sarebbero costituito dall’approfondimento del fondale, specialmente nel punto ove la Dora entra nel lago e nel ramo che collega il bacino al lago di Avigliana. Il materiale di riporto può essere usato per ricostruire l’arco collinare morenico nella sua primitiva consistenza, a copertura anche di una diga di contenimento, da costruirsi per maggior sicurezza, ma totalmente occultata alla vista. Lo sbocco immissario della Dora e degli altri torrenti potrebbero essere controllati da un’impresa di escavazioni, ad evitare l’interrimento.

NOTE:

(1) – s.v. Alpignano.

(2) – Si accorgono appena, allorché si dirigono verso la Val di Susa lungo la strada rivolese, che poco prima di sottopassare la ferrovia, la strada – nonostante sia diretta a risalire la valle – anziché salire, scende: nel bacino del lago, appunto.

(3) – In realtà, se il lago fosse rimasto, la costruzione del complesso sarebbe avvenuta circa sedici metri più in alto, arretrandola verso la collina. Venne invece costruita al margine della residua palude, ove la strada poteva passare.

(4) – Allorché il presente brano è stato scritto, le ferriere erano ancora Fiat.

Fonte: Europa Reale n. 1 – gennaio 2003
Autore: Gianpaolo Sabbatini
Cronologia: Protostoria

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