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GELA (CL): Riemerge l’altra Gela, una “piccola Pompei”.

Oggi i panorami del Petrolchimico e una selva abusiva di cemento, ieri uno degli empori commerciali fondamentali del mondo greco-romano.

Torna a galla una nave di 25 secoli fa: “il gioiello più grande del Mediterraneo”.

Per capire cos’era Gela duemilacinquecento anni fa non basta voltare le spalle alle ciminiere del Petrolchimico, distogliere lo sguardo dal mare colore della ruggine, ignorare la selva abusiva di cemento o i fuochi accessi ogni notte da mafia e racket fra botteghe e cantieri.

Difficile immaginare il paradiso, nell’inferno. Ma l’utopia di chi resiste in quest’angolo devastato da aridità culturale e fumi maleodoranti, forse, può essere aiutata dalla ristretta pattuglia di archeologi, esperti e qualche politico impegnati a cercare tracce del passato, a tirarle fuori dalla terra e dal mare per far riemergere un’altra Gela, raccontare ed esaltare una storia solenne, quella della Magna Grecia.

Come stamane nella fascia meridionale della Sicilia, a ottocento metri dalla costa, di fronte alla città dell’Enichem, rubando ai fondali un altro pezzo della più grande nave greca trovata nel Mediterraneo e affondata qui nel Cinquecento avanti Cristo da una tempesta simile a quelle che oggi fanno naufragare nelle stesse acque le scialuppe dei clandestini.

Una nave di 21 metri, larga quasi sette, “cucita” con una tecnica di biblica sartoria navale. Come dimostra questo reperto greco-arcaico celato dalle onde per 25 secoli a poche decine di metri, scoperto nel 1998 da due sub, per caso, e da allora studiato per tirarlo su, pezzo dopo pezzo. Cominciando con il carico, comprese le ossa di un bue già macellato, forse riserva per i dodici marinai d’equipaggio. E continuando con le travi “cucite” da una trama di fibre vegetali ancora ossidate nel cavo di fori impermeabilizzati con la pece. Ne hanno già portato a riva un bel po’, di legni. E la nave potrebbe essere ricostruita per intero a terra già dal prossimo maggio. Anche perché oggi le gru solleveranno il pezzo forte della prua, il “madiere numero 8”, come lo chiama Rosalba Panini, direttore scientifico delle operazioni e responsabile del servizio archeologico della Sovrintendenza ai monumenti di Caltanissetta. Vedere emergere la parte inferiore, quella composta dai giunti dell’ossatura incastrati per saldare la chiglia, sarà uno spettacolo unico per il professore Edoardo Tortorici, per archeologi e architetti. Un gioiello così grande infatti non l’hanno mai potuto studiare né a Marsiglia, né a Megan Micael in Israele, né a Kyrenia, a Cipro, dove si conservano gli altri quattro esemplari recuperati nel Mediterraneo.

Reperti simili, ma di proporzioni inferiori perché si tratta di “navi” (o barche) che non superano i 15 metri. Di qui l’interesse del mondo scientifico per questa campagna di ricerche nel mare di Gela, un’area che sta regalando tesori spesso ignorati dagli itinerari turistici, come si danna il sovrintendente Pippo Gini indicando per esempio i preziosi altari arcaici pur mostrati in giro per il mondo, passando dal Louvre ai musei americani di Cleveland e Tampa.

Altari scoperti a due passi dalla foce del fiume Gela, il vecchio porto dove quella nave affondata dalla tempesta era diretta. Per scaricare e depositare la merce nei magazzini di un emporio grande come un moderno centro commerciale. Perché, come spiegano gli architetti Alessandra Benini, Ettore Di Mauro e Daniela Vullo, quello di Gela, proprio sotto la tirannide di Gelone, fu un fondamentale polo di stoccaggio per i commerci del Mediterraneo. E lo dicono muovendosi fra gli “stand” dell’emporio, separati da mura alte tre metri, piazzole ed aree di vendita. Un gioiello. Una piccola Pompei, da trasformare in una meta obbligata per turisti, come spera il sindaco Rosario Crocetta, nonostante i veleni della sua scandalosa Gela.

E’ questo ruolo antico della città che oggi prova a riproporre il sindaco, un po’ aulico, con enfasi forse ironica: “Dal nostro parco archeologico comincia il nostro Rinascimento fatto di regalità e rilancio socio-culturale”. Ci prova, lui che ha aperto lo sportello antiracket e antiusura, senza confini politici e pronto ad allearsi anche con l’assessore regionale ai Beni culturali, Fabio Granata, a sua volta deciso a spendersi per Gela: “Terra di civiltà raffinatissima e non della follia determinata da cattiva politica e modernità malata”.

Le gru, nel progetto di quell’utopia possibile, dovrebbero quindi sollevare stamane anche le speranze del riscatto. Insieme con notizie utili per capire cos’era il mondo di duemilacinquecento anni fa. Perché le notizie stanno nei dettagli. Anche fra le pieghe della stiva di questa nave zeppa di ciotole, tazzine, lucerne ed anfore. Oggetti di tutte le forge. E di tutte le isole greche. Compresa quella di Chio, l’eden dalle vigne miracolose dove si produceva il vino più decantato dell’antichità. Appunto, il vino chiota, custodito in anfore dalla forma oblunga, ovale, con puntale e dorso segnati da una linea dipinta di rosso e da un cerchietto inciso col nome dell’isola, proprio come un marchio. Ecco dove stava il nettare del tiranno, nella Gela che allora cresceva e si espandeva sotto la guida di Gelone, capace di conquistare Siracusa, di farsi acclamare dal popolo come benefattore, salvatore, re, e di far arrivare con quella nave ogni leccornia per i notabili della sua corte, per i suoi cavalieri, forti di diecimila mercenari.

Pezzi di legno squarciati da una tempesta raccontano così vita e commerci di popoli dimenticati. Anche ricostruendo la rotta di una nave attraverso le sue anfore di forgia corinzia per l’olio, di tipo punico per tanti semi, come le greco-occidentali, disposte accanto a quelle attiche o provenienti dalle isole di Lesbo e Samo. Possibile che una barca di 21 metri navigasse tanto fino all’Egeo? E’ uno dei quesiti posti al pool di scienziati che si prende cura di legni e carico. A cominciare dalla Panvini che tante risposte le ha raccolte su un libro edito da Sciascia, “La nave greca arcaia di Gela”: “Quella nave non poteva viaggiare tanto. Evidentemente c’erano punti di immagazzinamento di vari materiali provenienti da ogni parte. E la stessa Gela aveva questo ruolo. Con il suo emporio”.

Lo dice mentre non finiscono mai gli esami sui resti della nave. Compresi quelli sui cestini in fibre vegetali per trasportare cibi e oggetti, canestri che la sabbia dei fondali ha ben conservato. Sì, gli studi non finiscono. Come le soddisfazioni di queste campagne guidate a due passi dall’emporio millenario, ma all’ombra delle ciminiere che bruciano petrolio, scrutate con rabbia dalla Panvini: “Un pugno allo stomaco. Con una consolazione, pensando che sia ormai solo archeologia industriale…”.
Fonte: Presstoday Corriere della Sera.it – 11/10/03
Autore: Felice Cavallaro
Cronologia: Arch. della Magna Grecia

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