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EGITTO: Quel rosso che piaceva agli Egizi.

Le reliquie della civiltà egizia attirano ogni anno migliaia di visitatori nella valle del Nilo, tutti stupiti di fronte alle pitture che hanno conservato la vivacità originale dei colori.

Dei e animali, operai e faraoni, principesse e soldati, sono fissati in un’eternità cromatica immobile, che percepiamo come ancora vivente e palpitante. Tra le tinte spiccano i rossi di tutte le tonalità, il giallo, il nero, il bianco e il rosso, che è il colore più diffuso e utilizzato. Il pigmento naturale rosso, detto anche ocra rossa, è costituito in gran parte dal minerale ematite, un ossido di ferro molto diffuso sia in cristalli neri lucenti sia in masse terrose colorate di vario aspetto e consistenza. Comunque si presenti, l’ematite forma una polvere sempre rossa: rosso fegato se si macinano i cristalli, rosso in varie tonalità se l’ematite è terrosa e mescolata con argille. Quest’ultima è la vera ocra rossa. Non a caso il nome del minerale deriva dal greco “aima” che significa “sangue”. E chi trovasse ostico il nome grecizzante, pensi a una sua insospettabile discendenza, la comune “matita”.

Dove trovavano gli antichi egizi l’ocra rossa che hanno utilizzato per millenni? Qualcosa ricavavano dal Deserto Orientale o dal Sinai, dove però sono noti solo modesti giacimenti e per lo più di ocra gialla, la variante idrata dell’ossido di ferro. È vero che arrostendo l’ocra gialla, questa si disidrata e si ottiene quella rossa, ma se il pigmento giallo di partenza é già poco abbondante, la trasformazione non è conveniente. La soluzione è emersa lentamente, un tassello dopo l’altro, a partire dal 1991 ed è stata confermata nell’aprile 2005 da un comunicato stampa dell’agenzia egiziana Mena: gli archeologi egiziani diretti da Zahi Hawass che scavano presso le piramidi di Giza hanno trovato non solo sacchi di ocra grezza, ma anche sigilli e registrazioni del periodo di Cheope su spedizioni inviate nel deserto per procurarsi il prezioso pigmento.

Un grande gruppo di cave di ocra rossa era stato scoperto per caso da Giancarlo Negro durante una spedizione organizzata nel 1991 dalla Fondazione Luigi Negro, dal Museo Civico di Storia Naturale di Milano e dall’Egyptian Geological Survey and Mining Authority del Cairo. Il giacimento, che si trova 250 chilometri a ovest dell’oasi di Dakhla, e che presenta numerosi e netti fronti di scavo, non sembrava allora in diretto collegamento con l’antica civiltà egizia.

Un recente articolo pubblicato sulla rivista “Sahara” (http://www.saharajournal.com) ha dissipato ogni dubbio. Chi poteva avere utilizzato il materiale, estraendolo da un’area così inospitale e priva di acqua? Le popolazioni predinastiche? Gli antichi Egizi? I Garamanti di cui parla Erodoto?

Dopo l’optimum climatico neolitico, terminato verso il 5000 a.C., sopravvenne il forte inaridimento che perdura tuttora. In quel territorio non esistono tracce di stabile percorrenza e di insediamenti se non di età anteriore al 5000 a.C. Meno che mai era documentata in quel deserto la presenza egizia, se non per la straordinaria eccezione del deposito di anfore scoperto negli Anni 30 ai piedi della collina di Abu Ballas: antica scorta d’acqua, appariva ai viaggiatori come un’enigmatica presenza in mezzo al deserto, ancora oggi utile riferimento nelle carte geografiche.

Negli anni 1996-98 si scopriva che il giacimento di vetro naturale di colore giallo-verde (Libyan Desert Glass), un centinaio di chilometri a nord-ovest di Abu Ballas, nel Grande Mare di Sabbia, e molto probabilmente originato dalle rocce fuse dall’impatto di un corpo cosmico verificatosi circa 28 milioni di anni fa, era noto all’epoca di Tutankhamon.

Uno dei suoi pettorali, conservato al Museo Egizio del Cairo, è infatti ornato al centro da uno scarabeo intagliato in questo materiale. Segno evidente che quel settore di deserto era frequentato in epoca dinastica.

Nel frattempo, tra l’oasi di Dakhla e la collina di Abu Ballas, Giancarlo Negro e alcuni esploratori tedeschi hanno scoperto altre tappe intermedie ricche di iscrizioni e ceramiche.

L’annuncio di Zahi Hawass pone l’ultimo tassello alla ricostruzione dei movimenti egiziani nel temibile e remoto Deserto Occidentale, confermando che la meta e delle carovane di Cheope erano le cave di ocra rossa raggiungibili da Dakhla.

Gli Egizi percorrevano il deserto secondo itinerari precisi e con tappe ben segnalate, forse eredità di percorrenze più antiche, quando il paesaggio era più verde e ospitale. Conoscitori del cielo stellato, si orientavano probabilmente con la Polare dell’epoca, Thuban, una stella che è 4 volte più debole della Stella Polare e che adesso dista circa 25º dal polo nord attuale. Gli antichi egizi affrontavano quindi grandi disagi nel deserto per procurarsi materie prime reputate di gran pregio, come il raro vetro siliceo e l’ocra rossa.

Una spedizione scientifica organizzata dalla rivista «Sahara» e da ricercatori dell’Osservatorio Astronomico di Torino e del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze, è ora nel Deserto Occidentale egiziano per delineare con precisione le aree delle cave e dei vetri naturali e prelevare campioni di questi materiali, la cui composizione chimica verrà confrontata con i reperti archeologici.

Fonte: La Stampa – Tuttoscienze 30/11/2005
Autore: Vincenzo De Michele
Cronologia: Egittologia

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