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Archeologia Subacquea. Il racconto dell’acqua.

Quella subacquea è una delle branche piú affascinanti dell’archeologia, soprattutto per l’ambiente naturale in cui avvengono le ricerche: l’acqua.
È difficile, infatti, sottrarsi al fascino del mondo sottomarino quando si osservano le immagini degli archeologi con muta e bombole che fluttuano attorno a un antico relitto dalla stiva colma di anfore. Piú che parlare di mare, dovremmo piuttosto utilizzare il termine «archeologia delle acque», poiché la ricerca subacquea rivolge certamente il suo interesse ai fondali marini, ma anche alle lagune, ai laghi, ai fiumi e persino alle antiche cisterne costruite dall’uomo.
Questa disciplina, nella sua accezione comune, patisce gli effetti dannosi di una certa leggerezza con cui talvolta realtà e leggenda vengono mescolate, enfatizzando gli aspetti avventurosi e materiali della ricerca, trascurando invece quelli piú importanti, legati al suo aspetto scientifico. Ne risultano frequenti confusioni tra relitti e galeoni, statue e dobloni, archeologi e cercatori di tesori. Nonostante alcuni tra i piú preziosi reperti esposti nei nostri musei – basti pensare ai Bronzi di Riace o, anche, alla meno nota anfora di Baratti – provengano appunto da relitti, non bisogna immaginare l’archeologia subacquea come una «caccia al tesoro».
È bene quindi chiarire di cosa tratti questa disciplina, partendo da un principio cardine di tutta l’archeologia: che un reperto, per prezioso che sia, non ha valore in quanto reperto in sé, ma solo come «contenitore» di informazioni scientifiche, legate al luogo e al contesto in cui viene trovato, al modo in cui giace, al tipo di incrostazioni e sedimenti che lo ricoprono, a tutti gli elementi, insomma, che lo circondano al momento del ritrovamento. Privato di questi dati esso diventa solo un «bell’oggetto». Questo è il motivo per cui i tombaroli, di terra e di mare, arrecano danni gravissimi alla ricerca: oltre ad appropriarsi di un bene pubblico, essi distruggono per sempre le informazioni legate al contesto in cui giace il reperto, che finisce con il somigliare a un bel libro antico dalle cui pagine è però sparito lo scritto.
La ricerca non è una caccia
Ecco spiegata, allora, l’enorme differenza tra «cacciatori di tesori sommersi» e archeologi subacquei. I primi sono «imprenditori», in cerca di oggetti preziosi a fini commerciali. I secondi sono studiosi, interessati al sito in cui si trovano i reperti, che richiede un’attenta analisi, mediante la raccolta di ogni dato, attraverso il rilievo a disegno e fotografico; segue lo scavo del terreno, dal quale gli oggetti vengono liberati, accompagnato dalla documentazione di tutte le fasi operative. Si giunge infine al recupero dei materiali, conclusione di una lunga e delicata indagine. L’archeologo, insomma, non cerca tesori, ma studia il passato, e ciò vale anche per l’archeologia subacquea. Nelle prossime puntate di questa rubrica vi condurremo in un viaggio affascinante, alla scoperta del nostro patrimonio culturale sommerso, dell’avvincente storia della sua esplorazione e dei progressi nella conoscenza del nostro passato che da essa sono derivati.
Vi spiegheremo quali sono le tecniche di ricerca dello scavo subacqueo, quali le attrezzature usate per le immersioni, come diventare archeologo delle acque o tecnico specializzato, ma anche se, e come, sia possibile offrire il proprio contributo in veste di volontario. Esploreremo le coste italiane raccontandovi le storie dei grandi ritrovamenti, vi aggiorneremo sulla realtà attuale della ricerca subacquea, ascolteremo i racconti e le opinioni degli specialisti che studiano il patrimonio culturale custodito dai nostri fondali.

Autore: Giovanni Lattanzi

Fonte: http://www.archeo.it , aprile 2008

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